testo in catalogo di Jacques Le Goff
Il riferimento alle colonne d’Ercole propone una prima griglia di lettura delle fotografie di Cesare Di Liborio. Questo colloca l’immagine in una doppia prospettiva: naturale e geografica da una lato, culturale e storica dall’altro.
Essa è pagana e cristiana. Si arriva all’immagine di Ercole, al termine di un giro eroico pieno di prove e di prodezze. I portali che essa raffigura sono il risultato di un percorso disseminato dalle imprese di un eroe sovrumano. Queste colonne segnano un compimento, un termine, sono il supporto di un arco di trionfo senza volta, aperto verso il cielo. Esse sollevano il viaggiatore al livello di eroe, l’uomo che ha camminato combattendo. Ma questo termine ha anche un significato di apertura. Queste braccia alzate mostrano la via. Il Dio dei cristiani si sostituisce all’eroe pagano:
Io sono la porta
Chi entra attraverso me, sarà salvo:
potrà entrare e uscire,
e trovare cibo
(Giovanni, 10,9)
La prospettiva spirituale, metafisica è principalmente naturale, geografica..
Essa apre sullo spazio, lo spazio della campagna, degli alberi e della foresta. Le colonne del portale subiscono una metamorfosi per trasformarsi in tronchi d’albero, la pietra morta diventa legno vivo, il prato diventa un mare di erba, di piante, di spighe. Là dove essa stessa sembra una recinzione, una griglia chiusa, affermazione di umana appropriazione, le colonne e la chiusura non impediscono di girargli intorno e quindi ecco il superamento, l’entrata. La strada è davanti alla porta a cui essa conduce, ma si passa oltre, attraverso la via utilizzata per l’andata o tramite la penetrazione anarchica sul terreno.
Ci si trova, al di fuori anche dei nomi e dei cartelli indicatori, in uno spazio geografico e storico dato, nell’Italia del Nord e più vagamente in un paese mediterraneo. Le colonne, a volte isolate, permangono quindi come un segno del passato, della civiltà sepolta ma non inghiottita. La Mediterranea è un campo di ricordi e di nostalgie.
Poi il foro viene tappato, il muro viene chiuso, sbarrato, il mattone e la pietra sostituiscono il vuoto, l’orizzonte, gli alberi, la foresta. Perfino la porta costruita e progettata è piena in segno di rifiuto, d’impossibilità, diviene essa stessa muro. Il conflitto tra apertura e chiusura termina sulla recinzione. Ercole è rimasto davanti ad un’ultima fatica incompiuta. L’uomo non andrà più lontano e non vedrà quello che gli sta dietro.
Voi mi cercherete e non mi troverete,
e dove sono io
voi non potrete venire
(Jean, 7, 34)
Tutto ciò che l’occhio e la mano del fotografo cercano è là: lo spazio, il tempo, la natura e l’uomo (nascosto ma terribilmente presente, come Ercole dopo le sue fatiche), il monumento-ricordo, le ombre e la luce.
La fotografia è un prodotto dell’occhio del corpo e dell’occhio dell’anima. Ed essa produce immagine e senso, del reale e dell’immaginario. Questo doppio movimento, questa doppia creazione è il segno distintivo dei grandi fotografi, dei grandi artisti, dei grandi poeti.
Jacques LE GOFF
It is pagan and Christian. We come to the image of Hercules, at the end of a heroic feat, full of trials and deeds of valour. The portals it depicts are the result of a trail of deeds of prowess, unique of a superhuman hero. These pillars mark a completion, an ending, they are the support of an arch of triumph without a vault, open to the heavens. They lift the traveller up to the level of the hero, the man who walked, fighting. But this ending also has a meaning of opening. These raised arms show the way. The God of Christians takes the place of the pagan hero:
I am the door :
by me if any man enter in,
he shall be saved, and shall go in and out,
and find pasture.
(St. John, 10,9)
The spiritual and metaphysical perspective is primarily natural, geographical.
It opens onto space, the space of the countryside, of trees and of the forest. The pillars of the portal undergo a metamorphosis that transforms into tree trunks, the dead stone becomes living wood, the meadow becomes a sea of grass, of trees, of ears of corn. There where it appears to be an enclosure, a closed grille, affirmation of human appropriation, the pillars and the enclosure cannot stop us going around it and to get around it, the entrance. The road is in front of the door to where it leads, but we go beyond, along the path used for going, or by anarchic penetration of the land.
We find ourselves, beyond the names and signs, in a given geographical and historical space, in the north of Italy and more vaguely in a Mediterranean country. The pillars, at times isolated, remain a sign of the past, of the buried civilisation but not swallowed up. The Mediterranean is a field of memories and nostalgia.
The hole is then plugged, the wall closed, barred, brick and stone replace the void, the horizon, the trees, the forest. Even the door built and designed is solid as a sign of refusal, of impossibility, it too becomes a wall. The conflict between opening and closing terminates at the enclosure. Hercules stops in front of the last labour, still to be terminated. Man will go no further and not see what is behind him.
Ye shall seek me, and shall not find me :
and where I am,
thither ye cannot come.
(St. John, 7, 34)
Everything the photographer’s eye and hand are looking for is there : space, time, nature, man (hidden but terribly present, like Hercules after his labours), the monument, the shadows and the light.
Photography is a product of the eye of the body and of the eye of the soul. It nourishes it with images and feelings, reality and fantasy. This dual movement, this dual creation is the distinguishing mark of great photographers, of great artists, of great poets.
Jacques LE GOFF