testo in catalogo di Antonella Anedda
“via fratelli Cervi, 66 MaxMara”
Perfino più acutamente della poesia la fotografia sente la vanità, lo sbriciolarsi del tempo, l’enigma di un passato prossimo che in uno scatto diventa remoto, definitivo, irraggiungibile. Per questo crea ogni volta uno spazio le cui coordinate sono storia e luce, memoria e ombra.
In queste foto scattate in occasione dello spostamento obbligato e veloce: in tre giorni, da una sede all’altra della MaxMara, l’azienda per cui da tempo lavora, Cesare Di Liborio ribadisce che non esistono soggetti privilegiati, che si può scegliere e fotografare anche quello che sembra più trascurabile e farne l’oggetto di un discorso artistico. Anche qui come nei cancelli e nelle colonne circondate dal vuoto protagonisti di alcune delle opere più significative di Di Liborio, le cose devono la loro bellezza alla loro capacità di comunicare l’attenzione appassionata di chi ha guardato, fotografato, restituito. In queste che potevano essere solo le belle foto in bianco e nero “di servizio”, come si dice di alcune traduzioni, c’è invece molto altro: lo spalancamento di un luogo di silenzio in cui quello che resta di uno spostamento prende corpo e si mostra, inaspettatamente, in un aumento di volumi, nel risalto improvviso di una porta o nei cerotti bianchi che sigillano le scatole. Sono dettagli che chiamano in modo diverso ciascuno di noi. Così il torso di un manichino su un tavolo è anche un tronco di legno salvato da un naufragio circondato dal mare dell’aria. Lo stesso tavolo diventa l’elemento di una stanza-navata, isolato da tutto il resto, esposto in obliquo alle variazioni della luce che modulano sui muri torrenti o fili d’erba, o sagome di pietre. Anche gli spazi dei magazzini fotografati sono luoghi di riflessione sul vuoto, su spazi che vengono lasciati, su corpi che sono stati là e hanno lasciato tracce. Così le vetrate sono veri schermi su cui si proietta lo scorrere delle diverse ore del giorno, la diversità delle stagioni. Creano di volta in volta l’unico regno certo, quello della mutevolezza.
Non siamo di fronte a meditazioni desolate: su questi segni di passaggio si sente invece la possibilità di una costruzione ulteriore, di un passaggio a partire dalla consapevolezza che qui c’è stata vita, lavoro, incontri, voci, che qualcosa ha respirato insieme alle folate di stoffa. Anche l’uso del bianco e nero non ha solo effetti drammatici, ma ironici: sgombera anche il colore, l’indicazione sul non colore del muro lo interroga. Cosa è il rosso? Una intensificazione del buio? Cosa il blu e quante le superfici, le lamine del nero?
Probabilmente questa capacità di calibrare le emozioni negli spazi non riuscirebbe in pieno se Di Liborio da tempo non avesse coniugato la sua ricerca sulla luce con una vera riflessione sulla lentezza.
La lentezza chiede allo sguardo di attardarsi. Se questo non succedesse non potremmo, anche noi che guardiamo, riuscire a rallentare, a rallentarci insieme alle cose fino a percepire davvero il moltiplicarsi delle ombre delle foglie sulle tende, le orme lasciate dagli oggetti e dagli esseri umani, a capire quanto la polvere che segna il loro tempo ribadisca la nostra provvisorietà, il disperdersi alla prima corrente d’aria.
Antonella Anedda
Even more intensely than poetry, photography feels the vanity, the annihilation of time, the enigma of a recent past that in one shot becomes remote, definitive and unreachable. This is why time and again it createsa space in which the coordinates are history and light, memory and shadows.
In these photos taken on the occasion of a sudden forced relocation – in three days from one MaxMara facility to the new premises, MaxMara being the company for which he has worked for some time now – Cesare Di Liborio reaffirms that there are no privileged subjects, that the photographer can choose and photograph even what is seemingly most insignificant and make it the subject of a discourse on art. Here too, as in the gates with their columns surrounded by a void, protagonists in some of Di Liborio’s most significant photographs, things owe their beauty to their ability to communicate the passionate focus of the person who has observed, photographed and given back. In these photographs which could have merely been some very nice black and white photos from a ‘routine photo shoot’ – just as people say about some translations – there is something more, much more: a place of silence thrust wide open, where the remains of a move take shape and appear unexpectedly in increased volume, in the sudden prominence of a door or in the white strips of tape sealing the boxes. These are details that call out to each of us in different ways. Thus the torso of a mannequin on a table is also a trunk of wood left after a shipwreck surrounded by the sea of air. The table itself becomes an element in a nave/room, isolated from all the rest, obliquely exposed to variations of light that shape streams, blades of grass or silhouettes of stones on the walls. Even the spaces in the storerooms photographed are places for reflection on the void, on abandoned spaces, on bodies that have been there and left traces. And thus the glass panes are actual screens on which the passage of the different hours of the day and the difference between the seasons is projected. Time and again, they create the one realm that is certain, the realm of mutability.
We are not facing desolate meditations here – for in these marks of passage you can sense that there is a possibility for building onward, a path that begins from the awareness that here there was once life, work, encounters and voices, that there was something breathing here along with the billows of cloth. Even the use of black and white is not only dramatic in its effects, but also ironic. Even colour has left and the indication of the non-colour of the walls questions this. What is red? An intensification of darkness? And what is blue? And how many surfaces, laminae of black? This ability to calibrate emotions in spaces would probably not have worked so successfully if Di Liborio had not long combined his study of
light with serious reflection on slowness.
Slowness calls for the eyes to linger. If this were not to happen, we too, the observers, would not be able to slow down, to slow ourselves down together with things to the point of truly perceiving the increasing shadows of leaves on the blinds, the tracks left by objects and human beings, and we would not be able to understand how deeply the dust that marks their time confirms our impermanence, scattering upon the merest hint of wind.
Antonella Anedda