tesi di laurea di Eleonora Gabbi – anno accademico 2004/2005
Introduzione
La Sezione Fotografia del CSAC (Centro Studi Archivio Comunicazione) dell’Università di Parma, raccoglie 123 scatti in bianco e nero realizzati e stampati dal fotografo reggiano Cesare Di Liborio, tra il 1995 e il 1999, della cui analisi tecnica e critica mi sono occupata in questa tesi.
Il materiale, ancora inedito, suddiviso in serie (“Turista per gioco”; “Turismo quotidiano”; “Fabbrico, Centro di Pigiatura”) è stato schedato, così da permetterne una fruizione all’interno dell’archivio.
Successivamente l’analisi si è spostata su di un piano critico, affrontando singolarmente le tre serie.
Ho ritenuto opportuno poi, contestualizzare il materiale analizzato allargando il discorso all’intero percorso artistico dell’autore, affrontandone i passaggi salienti, la formazione, i modelli culturali ed i principali lavori realizzati.
Importante il paragrafo della collaborazione con la fotografa Valeria Montorsi, avvenuta in due sole occasioni, fra le quali la realizzazione della più consistente tra le serie possedute dal CSAC, quella relativa al Centro di Pigiatura di Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia.
Il mio intento è stato quindi quello di presentare nel modo più chiaro ed esaustivo possibile l’operato di Cesare Di Liborio, autore significativo del panorama fotografico italiano ed internazionale.
1.1 La formazione
Nel cercare di delineare i modelli culturali di Cesare Di Liborio, si deve prima di tutto prendere in considerazione la vivacità di interessi intorno alla fotografia e le numerose tendenze manifestatesi in questo campo, nell’ultimo quindicennio, sul territorio reggiano. Fra le ragioni principali di questo fenomeno va certamente annoverata la presenza di alcune personalità che sono diventate punti di riferimento per chi si dedica a ricerche fotografiche nel territorio emiliano: il modello di Luigi Ghirri, scomparso da oltre un decennio, ha coinvolto per esempio numerosi fotografi in ricerche sul territorio ed ha favorito la formazione di personalità che del rigore compositivo e della lucidità di visione hanno fatto il loro modello espressivo.
E sulla crescita di una più vasta schiera di appassionati di fotografia hanno avuto indubbiamente un peso notevole l’attività più che cinquantennale di Stanislao Farri e quella più breve, cronologicamente, ma non meno intensa, di Vasco Ascolini; come non si devono sottovalutare gli influssi irradiati dall’Ateneo di Bologna e dalla significativa voce di Italo Zannier, come dall’operato altrettanto fondamentale del grande maestro Nino Migliori.
Certamente la presenza di singole personalità non basterebbe a spiegare il fervore della realtà emiliana se sul territorio non esistessero anche impegnate associazioni fotografiche ed una fitta rete di rapporti personali, che favoriscono un tessuto assai vitale.
Esiste inoltre, a Reggio Emilia, una ben radicata linea di fotografia che possiamo collocare in un’ampia accezione del termine “metafisica” : non si tratta dell’opera di autori che hanno sposato una precisa estetica, ma piuttosto di un versante percorso da fotografi vicini ad una concezione soggettiva dell’immagine, al paesaggio umano più che al naturale, quello costituito dagli sguardi, determinato dal lavoro, ricco di sensazioni e di memoria collettiva.
Una fotografia attenta insomma alla descrizione del mondo esterno e anche alla “messa in forma” dei modi della descrizione e consapevole delle tradizioni messe in gioco, lontane o recenti; in altre parole una fotografia capace di mostrare vedute, paesaggi, luoghi e parallelamente un pensiero intenzionato a organizzare tutto questo.
Ed è proprio in questo “territorio della fotografia” che prende forma e si arricchisce l’opera di Cesare Di Liborio, nato a Reggio Emilia nel 1960, fotografo amatoriale sin dai primi anni Ottanta ed entrato nel circuito professionale da poco più di dieci anni.
L’occasione per questa svolta è l’incontro con Vasco Ascolini, che lo incoraggia ad organizzare la sua opera per serie, per ricerche condensate intorno a problemi della rappresentazione. E’ evidente che per Di Liborio, come lo era stato per lo stesso Ascolini, anche il modello di Luigi Ghirri, l’ammirazione per la sua fotografia sono determinanti in questa prima fase, ed è soprattutto al Ghirri che organizza l’enciclopedia del visibile in sequenze tematiche, come nelle celebri serie Identikit e Atlante che possiamo paragonare i primi lavori dell’artista reggiano.
L’autore stesso mi ha spiegato, nel corso dei nostri numerosi incontri, come dopo un periodo iniziale di produzione amatoriale, senza grandi progetti, realizzando immagini fini a se stesse, si sia sviluppata in lui l’esigenza di fare qualcosa di più, di andare oltre la preponderanza del formalismo puro sull’aspetto progettuale. Non bastava più partecipare a tanti concorsi sempre con lo stesso scatto, magari anche vincente, ma pur sempre un’immagine singola che non raccontava nulla al di fuori della sua bellezza estetica, il racconto doveva prendere vita attraverso una serie: “volevo fare capire a chi guardava le mie fotografie quello che la mia testa e il mio cuore producevano, o più semplicemente volevo trasmettere l’emozione di un progetto sviluppato attraverso un insieme di immagini.”
Come abbiamo detto l’influenza dell’amico Ascolini risulta preponderante in questa fase ancora acerba della sua attività; egli lo indirizza sulla strada da intraprendere, lo stimola a sviluppare il primo progetto: “Turista per gioco” (immagini di giocattoli, modelli, oggetti quotidiani che portano nella vita di tutti i giorni il mito del viaggio più o meno esotico) e lo segue nella sua realizzazione non imponendo mai il suo pensiero né la sua tecnica fotografica, piuttosto affinando e stimolando gli impulsi del giovane Di Liborio.
Con il passare del tempo quest’iniziale collaborazione, divenuta salda amicizia, trasmette al giovane autore tutto quello che il più anziano aveva appreso e costruito in trent’anni di carriera: il rigore e la precisione applicati alla tecnica, e soprattutto l’andare oltre i limiti connessi al procedimento tecnologico per agire direttamente attraverso le immagini sulla sfera della sensazione psicologica.
Uno dei capisaldi del lavoro di Di Liborio, infatti, è proprio la distinzione tra l’operato di un fotografo a livello amatoriale e quello di un autore che si reputa invece professionista, ovvero la presenza di una progettualità forte che stia alla base della serie fotografica, che permei ogni scatto, che aggiunga un significato altro all’immagine senza però renderne mai criptica l’interpretazione. E’ l’occhio infatti che vede le immagini, ma è l’immaginazione che sa isolarle nell’ “indistinto della percezione visiva” dando loro vita e realtà conoscitiva.
Come nella poetica di Farri anche per Di Liborio la fotografia registra semplicemente quanto l’autore ha saputo vedere e poi ha saputo valorizzare attraverso lo strumento di costruzione dell’immagine, per sviluppare la capacità di saper vedere ciò che sta dietro all’immagine. L’artista gioca ambiguamente con il valore formale dei singoli scatti, accuratamente costruiti, per spostarlo verso il piano comunicativo, legandoli in una sequenza che delinea un preciso racconto. Egli ama raccontare in maniera indiretta, per metafore si potrebbe anche dire, utilizzando la figura retorica della sinèddoche, della parte per rappresentare il tutto e tecnicamente parlando non sono poi solo i tagli astrattizzanti che rendono possibili queste immagini, ma una parte fondamentale è costituita dalla luce che modula, stacca e fonde superfici, cancella e crea volumi.
Tornando ora ad analizzare le tappe fondamentali della formazione di Di Liborio, non possiamo non citare gli incontri fondamentali, avvenuti anch’essi grazie all’appoggio di Ascolini, con Michèle Moutashar e Christian Breton. La prima, conosciuta nel 1996, è la direttrice del museo Reattù di Arles, personalità di primissimo piano del panorama fotografico internazionale, ed è proprio grazie a lei che Di Liborio ottiene visibilità fuori dai confini italiani ed ha l’opportunità, negli anni a seguire, di conoscere influenti personaggi del mondo della fotografia e della cultura francese, quali: J.C. Lemagny, primo direttore e fondatore della collezione di fotografia contemporanea alla Bibliotheque Nationale di Parigi, C.H. Favrod, ideatore e fondatore del museo per la fotografia de l’Elyseé di Losanna, Jean Arrouye, professore emerito all’Università di Provenza a Aix en Provence e critico d’arte, Philippe Arbaizar, conservatore della fotografia al Patrimonio a Parigi, Michel Quentin e M. Dieuzaide, fotografi, e di arricchire il proprio bagaglio culturale nell’ambiente provenzale, ricco di fermenti culturali, traendone nuova linfa per sviluppare temi e dar vita a diversi progetti fotografici quali “I Portali”, “Il Verde” e “Turismo quotidiano”, che rimangono tuttora alcuni tra i suoi lavori più apprezzati ed i cui titoli definitivi muteranno poi nelle “Colonne d’Ercole”, in “Verde que te quiero verde” e in “Turista per gioco”.
L’incontro con Breton, invece, avviene lo stesso anno durante una serata al Salon de Provence: l’allievo stampatore di Gassmann, a sua volta uno dei grandi stampatori di autori di fama mondiale quali Robert Kapa, sarà fondamentale per l’apprendimento di una nuova tecnica di stampa del bianco e nero, detta a doppio filtro, che permette di interagire sull’intera gamma tonale dei grigi, donando all’immagine naturalezze e suggestioni mai viste prima.
L’esposizione nel 2000, in concomitanza con i Rencontres Internationales de la Photographie di Arles, di uno dei suoi lavori di maggior successo “Le Colonnes d’Hercules”, il cui catalogo si fregia di un testo di Jacques Le Goff, rappresenta la conferma della sempre maggior considerazione ottenuta dall’artista reggiano in ambito internazionale e della crescente complessità della sua poetica. La serie infatti pur mostrando ancora qualche sottile omaggio all’opera di Luigi Ghirri (quello però più tardo, di Esplorazioni della Via Emilia, 1987 a Il profilo delle nuvole, 1989) realizza una meditazione propriamente metafisica sui luoghi. Sono fotografie localizzate geograficamente, storicamente (ma quasi per errore, magari per qualche lacero manifesto su di un pilone) con diverse valenze metaforiche. Si tratta quasi sempre di soglie che incorniciano la traversa di una strada, dove abbandonando la via principale si può seguire con lo sguardo il perdersi di un orizzonte. Inquadrano in un fotogramma una frazione di paesaggio, ne sottolineano l’orientamento con notazioni di architettura vernacolare impaginando con equilibrio il punto di arrivo dello sguardo, del mondo conosciuto, oltre il quale lo spettatore ha timore di inoltrarsi.
La metà degli anni novanta continua a presentarsi come una fase ricca di incontri propizi per Di Liborio: dopo la conoscenza di Ascolini e l’avvicinamento ad un tipo di fotografia di ricerca e dopo l’apertura verso il panorama internazionale, è la volta dell’altrettanto proficuo incontro con Italo Zannier, che lo indirizza verso una maggior rigorosità e pulizia nelle inquadrature e lo incoraggia a proseguire nei suoi lavori invitandolo nel 1997 a partecipare alla rassegna estiva di “Spilimbergo Fotografia”, importante vetrina fotografica del nord-est.
Dopo poco è la volta di Nino Migliori, la cui frequentazione ha inizio dopo una delle tante serate che Di Liborio e i colleghi del Fotoclub Terzocchio di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, organizzano invitando un fotografo ad esporre e la stessa sera dell’inaugurazione a dibattere sulle opere in questione. Uno di questi è proprio Nino Migliori. In seguito, afferma lo stesso Di Liborio: “…andai a trovarlo nel suo studio e a casa. Quando iniziai a fare i primi lavori, glieli portai per avere un suo parere. Li guardava, poi iniziava a domandarmi di tutto, voleva chiaramente capire se sotto alle immagini c’era un progetto chiaro e preciso. Spesso si divertiva a stravolgere l’ordine delle stampe e a chiedermi cosa ne pensavo. Gli ho sempre detto che quando uscivo da casa sua, mi sembrava di essere uscito da una centrifuga, la testa era piena di idee nuove e lo stimolo a creare qualcosa di nuovo era incredibile. E’ Nino che mi ha spinto a sviluppare il discorso della “memoria” fondamentale per lo sviluppo successivo delle tematiche legate all’ interiorità e alla soggettività del racconto”.
Sulla scia di questo fondamentale incontro Di Liborio realizza numerosi lavori che affrontano da svariate angolazioni il tema della memoria: quella dei luoghi, per esempio, intrisi di vissuto, nella decadenza di spazi ormai abbandonati, come testimoniano i rilievi di archeologia industriale delle Cantine Sociali di Fabbrico prima della loro demolizione (1999), condotto a quattro mani con Valeria Montorsi o dell’Ex-Zuccherificio Eridania a Parma, ora trasformato in moderno auditorium su progetto di Renzo Piano o ancora nell’analisi fotografica di un’antica fabbrica di treni, ormai in disuso, nella Francia Meridionale. La memoria può poi svilupparsi in una specie di diario interiore che dilata in un raffinato racconto gli spazi della propria abitazione, come accade in “Via Parma 14” (l’indirizzo dell’abitazione dell’autore) lavoro ancora inedito realizzato tra il 1998 e il 2002, reportage indiretto che ci consente di leggere in filigrana la cronaca di una giornata qualsiasi dei suoi abitanti, cadenzata da rituali ed azioni ormai abituali, nobilitate però dalla presenza di un’atmosfera di intimità personale o può risvegliare sensazioni sopite osservando a distanza di anni gli stabilimenti balneari delle vacanze estive di bambino, come accade in “Mare interiore” del 1996 o i giocattoli di latta appoggiati su di una bancarella , in “Turista per gioco” (1995/96).
Abbiamo avuto fin qui l’occasione di comprendere meglio la complessità progettuale dietro l’apparente semplicità degli scatti di Di Liborio ed ancora di più nel paragrafo successivo ci addentreremo nelle modalità organizzative e di sviluppo dei suoi principali lavori.
1.2 Dall’elaborazione dei temi allo scatto
“Solitamente i lavori che sviluppo nascono da un progetto ben preciso. Inizio a scattare solo dopo che ho ben chiaro quello che voglio fare, le prime immagini mi servono per capire se sono sulla giusta strada, se il discorso è unitario, se messe insieme “funzionano”… lascio che l’idea prenda piede, solitamente non è mai la prima quella buona. La abbandono e la riprendo fino a quando sento che è quella giusta. Un progetto può nascere da molti input, una frase, un’idea, un incarico o magari da qualcosa che senti dentro.”
Così Cesare Di Liborio affronta la genesi di un suo lavoro e la complessa progettualità che ne sta alla base. Raccoglie stimoli da tutto ciò che lo circonda: dalla sua formazione professionale, dalle personalità che lo hanno influenzato, dall’ambiente esterno, dai luoghi, dalla natura e dalla memoria, amalgamando il tutto in un’interpretazione personale, mai scontata. Gli scatti infatti non hanno alcun senso presi nella loro individualità, l’autore non attribuisce mai titoli singoli per la loro connotazione prettamente amatoriale, anzi accade che alcune immagini che inizialmente possono rientrare nel progetto generale della serie vengano scartate in fase di elaborazione e perdano completamente la loro identità. La meticolosità con cui l’autore sigla sul verso ogni stampa originale, data e luogo di realizzazione non può lasciar adito a dubbi riguardo l’unicità dello scatto scelto per entrare a far parte definitivamente di un suo lavoro.
Le dimensioni stesse delle stampe sono fondamentali per cogliere lo spirito che permea il progetto: si va dalla maestosità dei portali, visti come soglia fisica di passaggio all’ignoto, alle piccole e calde immagini della sua abitazione per trasmettere allo spettatore l’idea dell’intimità delle cose e delle emozioni.
Per spiegare la scelta di lavorare con il bianco e nero niente può essere di maggior aiuto delle parole dell’artista stesso: “Non so se il bianco e nero sia o meno un valore aggiunto ad uno scatto, so che, per quanto mi riguarda, mi stimola di più. Ancora oggi, quando stampo per la prima volta una fotografia e vedo affiorare l’immagine sul foglio bianco, è sempre “una piccola magia”, un’emozione.” Le calde ed avvolgenti sfumature delle sue stampe, infatti, trasfigurano il soggetto, lo rendono intimo e quotidiano, smorzano le asprezze compositive. Lo conferma anche la tendenza a lavorare da solo, salvo due casi particolari che affronteremo successivamente, basti pensare che Di Liborio non conserva nemmeno gli scatti originali di alcuni rilievi architettonici svolti su commissione, quasi a voler cancellare dalla sua produzione lavori troppo vincolati.
Volendo ora considerare le tematiche di maggior peso all’interno della sua opera, non possiamo non iniziare con l’affrontare il complesso discorso sulla memoria, divenuto preponderante dopo l’incontro con Nino Migliori, ma già presente in embrione nel suo primo lavoro, la serie intitolata “Turista per gioco” del 1995/1996. Qui infatti il viaggiatore-bambino protagonista di molti scatti è sì il figlio dell’autore ma è contemporaneamente una figura metafora dello stesso fotografo, intento a ripercorrere con la mente le vacanze in Romagna in quegli stabilimenti balneari dai nomi fantastici, “Infinito” ed “Oceano”, dove rivivere le sensazioni dell’infanzia, giocando con un’automobile in latta o un aeroplanino ridotti a polverosi cimeli di antiquariato.
Ma è solo a partire dal 1997, come abbiamo detto più volte, che il tema della memoria si arricchisce di numerose sfaccettature e soprattutto di una delle sue valenze principali, quella legata alla memoria dei luoghi.
Dopo l’incontro con Nino Migliori infatti si fa pressante l’esigenza di interpretare la realtà con l’occhio nostalgico del ricordo e del vissuto, ma non solo la realtà quotidiana vicina a quella dell’autore, come quella famigliare, ma anche quella collettiva rappresentata principalmente dai luoghi del lavoro. Ed è proprio da qui che prendono vita i rilievi di archeologia industriale realizzati alla fine degli anni Novanta presso l’Ex-Centro di Pigiatura di Fabbrico, punto di riferimento per l’industria enologica della bassa reggiana e fondamentale trampolino per lo sviluppo economico e sociale della zona, in attesa di essere demolito per far spazio ad un moderno complesso residenziale o all’interno dell’Ex-Zuccherificio Eridania di Parma, prima della ristrutturazione ad opera del grande architetto Renzo Piano che lo trasformerà nell’Auditorium Paganini.
Altri rilevi di questo tipo possono essere considerati anche quelli realizzati tra il 2001 e il 2005 anni presso una fabbrica di treni ormai in disuso nel sud della Francia o in un convento di frati del 1500 in attesa restauro, su commissione di Luigi Maramotti, quest’ultimo inoltre unico lavoro, insieme a quello di Fabbrico, realizzato a quattro mani, in collaborazione con la fotografa reggiana Valeria Montorsi.
Di Liborio considera questi spazi ormai abbandonati come edifici strettamente legati alla memoria e al vissuto del luogo, alla storia e al suo sviluppo. L’edificio non deve essere visto solo come un contenitore vuoto, come un volume degradato, ma come una traccia del paesaggio, di cui bisogna salvare la memoria stratificata, darle una durata diversa.
Quando poi nel 2004 gli viene affidato l’incarico di realizzare una campagna fotografica all’interno dell’Ex stabilimento Max Mara a Reggio Emilia ecco che entra in gioco una nuova valenza del concetto di memoria, che possiamo dire raggruppa le due sfere analizzate fino ad ora, quella personale e quella collettiva: lo stabilimento infatti è stato per molti anni il luogo di lavoro dell’autore e può quindi legarsi ad una visione quasi famigliare dell’ambiente ma nello stesso tempo rappresenta uno spazio collettivo la cui esistenza di lì a breve non avrà più modo di essere ricordata se non attraverso una fotografia.
Tra il 1998 e il 2002 Di Liborio realizza poi una serie di scatti dal titolo “Via Parma 14” (il suo indirizzo di casa) che ci introducono all’interno della sua abitazione, ma anziché essere impiegati per descrivere gli aspetti architettonici e i caratteri dell’arredamento, si soffermano su piccole porzioni dell’ambiente, su oggetti di uso quotidiano, su situazioni banali; insomma su ciò che di una casa solitamente non si mostra agli estranei perché considerato troppo personale. Ne consegue che anche qui come nei rilievi industriali, la visione non si esaurisce in se stessa, ma ci costringe mentalmente a pensare a quello che sottende, a leggere in filigrana con l’aiuto della memoria la cronaca di una giornata qualsiasi dei suoi abitanti, cadenzata da rituali ed azioni ormai abituali; a considerare la presenza di un fruitore, a percepire in quelle immagini un’atmosfera di intimità personale. Proprio per questo le fotografie restano di piccolo formato ed hanno un tono morbido e caldo, mantenendo volutamente un non so che di dimesso.
Dopo l’ampio spazio dato al tema della memoria, altro tema indubbiamente meno rassicurante, ma altrettanto caro all’artista è quello del passaggio, del limite, del dualismo conosciuto/sconosciuto, vita/morte, buio/luce, incarnato nell’iconografia del Portale. Tutto questo si realizza a pieno in quello che indubbiamente va considerato come il suo lavoro più prestigioso, per la visibilità ottenuta a livello internazionale e per il successo di critica, ovvero la serie di 24 fotografie intitolata inizialmente proprio “I portali” e che diverrà “Les Colonnes d’Hercules” dopo l’esposizione nel 2000 al Museo Reattù di Arles in occasione dei Rencontres Internationales de la Photographie che in quell’anno avrebbero dovuto avere come filo conduttore proprio quello del limite.
Sono fotografie di grandi dimensioni localizzate geograficamente (la bassa reggiana e parmense, la costa toscana, l’appenino tosco-emiliano) e storicamente, ma quasi per incidente, magari grazie ad un lacero manifesto su di un pilone, arricchite di numerose valenze metaforiche. Si tratta quasi sempre di soglie che incorniciano la traversa di una strada, dove abbandonando la via principale lo sguardo può perdersi nell’orizzonte. Di Liborio inquadra con un fotogramma una frazione di paesaggio, lo chiude simbolicamente tra due colonne, nonostante le prese laterali suggeriscano una via di fuga, costringe lo spettatore a varcare intimorito quella soglia verso l’ignoto, il buio, forse la morte, proprio come accadeva agli antichi navigatori giunti alla fine del mondo conosciuto. Jacques Le Goff nel testo introduttivo al catalogo della mostra coglie perfettamente la spiritualità, la metafisica di questi scatti e si sofferma su di un altro tema caro all’autore, quello della natura e del “verde” in particolare: “La perspective dans cettes photographies c’est naturelle et géographique d’un coté, culturelle et historique de l’autre. Elle ouvre sur l’espace, l’espace de la campagne, des arbres et de la foret. Les colonnes du portail se métamorphosent en troncs d’arbre, la pierre morte devient bois vivant, la prairie devient mer d’herbes et de plantes »
L’esperienza del limite quindi trasposta anche nello scenario naturale, tra le fronde degli alberi viste come volte e i tronchi come colonne. La stessa natura ed in particolare “il verde” tanto amato dal protagonista che se ne circonda anche nella vita quotidiana, scegliendo di abitare nelle campagne parmensi, diviene il tema centrale di una serie realizzata nel 1998 dal titolo evocativo “Verde que te quieto verde” tratto dalla poesia “Romanza Sonnambula” di Federico Garcia Lorca. Il verde di queste immagini è quello concreto di Marzabotto, Arles, Veleia e Fosdinovo in cui ritroviamo tra due tronchi o tra due fronde l’onnipresente iconografia del portale, ma nello stesso tempo è visto in accezione spirituale come desiderio, come aspirazione, tensione e totalità, fino ad annullare tutti gli altri colori, a rendere “monocroma la pelle del mondo” . Colore dal valore medio, mediatore tra il caldo e il freddo, tra l’alto e il basso, tra la dimensione umana e l’ultraterreno. Può risultare strano questo alludere ad un colore da parte del bianco e del nero, ma la complessa e molteplice scala dei grigi utilizzata da Di Liborio permette di cogliere comunque a pieno la cromia dell’ambiente nelle sue sfumature a volte intrise di luce altre vibranti di ombra. Un’ombra per esempio ricca di inquietudine come quella proiettata dalle alte pannocchie di un campo di mais in cui l’autore si imbatte casualmente sulla strada verso Spilimbergo, nei pressi di Pordenone, e che diverrà il soggetto di un suo recente lavoro intitolato “Labirinthos” in cui la tematica della natura, questa volta maligna (afferma Di Liborio: “dove si nascondono spessissimo i protagonisti dei film dell’orrore quando sono inseguiti da qualcosa o qualcuno di cattivo…ma dentro un campo di mais no?!”) si fonde con la ricerca di una via di fuga, trovata alla fine del percorso ancora una volta tra due simboliche colonne.
L’autore in questi scatti, come in gran parte del suo lavoro, dagli ambienti deserti delle industrie abbandonate, agli spazi della propria abitazione, alle soglie metafisiche dei portali, elimina la presenza dell’uomo, intesa come misura del tempo e delle cose, rendendo la vegetazione immediato simbolo di immortalità, di immutabilità, al di fuori dello scorrere del tempo, chiusa nel ciclo magico delle stagioni.
Una particolare attenzione alla presenza umana, particolare in quanto non va intesa come soggetto visibile all’interno degli scatti ma piuttosto come protagonista esterno, la riscontriamo, invece, nelle serie il cui protagonista si identifica con il turista quotidiano, ovvero l’uomo comune, imprigionato nella routine ma in grado di fuggire da questa attraverso il viaggio mentale nel ricordo e nel sogno. Ecco allora che negli scatti realizzati nel 1996 all’interno della metropolitana milanese, nonostante le presenze fisiche riprese non siano molte, percepiamo distintamente il tentativo di quest’ultime di evadere dal minimo mondo del nostro quotidiano attraverso l’ immaginario, attraverso il desiderio di viaggiare oltre i confini.
A conclusione di questa approfondita riflessione sull’operato del fotografo reggiano abbiamo compreso come Di Liborio “giochi” con il valore formale delle singole immagini, costruendole accuratamente e spostandone il valore sul piano comunicativo, legandole in una sequenza che delinea un preciso racconto attraverso il vissuto.
1.3 Due realtà a confronto: l’Emilia e la Provenza
La carriera di Cesare Di Liborio si è avvalsa, a partire dalla sua formazione e dal suo ingresso nell’ambiente della fotografia cosiddetta professionistica, di proficui incontri con personalità di spicco dell’ambiente culturale e del panorama fotografico italiano ed internazionale. Questi contatti hanno fatto sì che il suo lavoro venisse apprezzato non solo a livello locale, ma soprattutto oltre confine ed in particolare in ambito francese.
Sono quindi due le realtà a confronto, all’interno delle quali il nostro autore si muove e lavora: l’Emilia e la Provenza; entrambe ristrette aree geografiche ma egualmente stimolanti dal punto di vista culturale.
La prima può vantare un variegato panorama nient’affatto ripetitivo e chiuso entro confini provinciali: basta pensare che tra il Settembre 1996 e il Luglio 1997 sono state ben 52 le mostre personali sul territorio reggiano, che non hanno certamente esaurito il numero dei possibili espositori, ma hanno consentito comunque di rivelare un’importante realtà culturale. Realtà culturale che prima dell’arrivo di personaggi quali Nino Migliori, Luigi Ghirri o Vasco Ascolini, presentava ancora un singolare parallelismo con la situazione storica in atto un secolo fa e che vale la pena di esaminare rapidamente poiché può suggerire utili temi di riflessione.
Il nodo centrale del dibattito intorno al ruolo della fotografia è sempre stato il suo statuto epistemologico, cioè riducendo il tema in termini più concreti, la domanda che ci si poneva era se la fotografia andasse annoverata tra le attività artistiche oppure fosse da considerarsi come una semplice tecnica artigianale di produzione d’immagine. Quest’ultimo aspetto ha avuto la meglio fino all’arrivo di personalità in grado di mutare l’immagine e scardinare questa concezione materiale della fotografia; autori come quelli sopra citati hanno fatto in modo che il peso della scelta intellettuale prevalesse di contro alla supposta meccanicità del mezzo.
Ed è proprio la presenza di questi artisti, che sono divenuti punti di riferimento per chi si dedica a ricerche fotografiche, ad aver incrementato la vivacità di interessi manifestatesi nell’ultimo quindicennio sul territorio reggiano. Certamente essa non basterebbe a spiegare tale fervore di ricerche, se sul territorio non esistessero anche impegnate associazioni fotografiche, sedi espositive votate principalmente ad esposizioni nel settore e se il lavoro condotto da Laura Gasparini presso la fototeca della Biblioteca Panizzi non avesse acquisito rilievo nazionale in ambito conservativo e catalografico; senza considerare (per parlare di un altro tipo di confine) della presenza a Reggio Emilia di uno storico dell’arte come Massimo Mussini, attivo nella ricerca e nella promozione delle culture fotografiche emergenti.
Sarebbero altresì incomprensibili fatti e sviluppi della fotografia di questo territorio senza tenere presenti episodi “confinanti” come la politica di analisi e conservazione della fotografia presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, fondato da Carlo Arturo Quintavalle nei primissimi anni settanta, o le attività di promozione della fotografia contemporanea presso la Galleria Civica di Modena.
Tentare quindi di tracciare la provvisoria geografia di “un territorio della fotografia” che coincida con i confini amministrativi della provincia reggiana, vuole dire per prima cosa confrontarsi con problemi che riguardano un territorio ben più ampio. Anzi vi è forse proprio una peculiare tensione verso l’esterno, verso una dimensione di confronto ampio con modelli esterni a caratterizzare il lavoro di parte dei fotografi locali: si pensi all’uso della Pop Anglosassone che Luigi Ghirri fece dai primi anni settanta per trovare nuove strade ad una fotografia italiana impantanata tra realismo e formalismo, si pensi (in parte a ridosso dell’opera Ghirriana) all’attività di sprovincializzazione della fotografia italiana promossa dai laboratori di Linea di Confine guidati da William Guerrieri.
Ed è proprio della coscienza che il fotografo ha oggi del suo operare, sia nei confronti della tradizione in cui sceglie di agire, sia dell’uso al quale intende destinare il proprio lavoro, che si nutre la carriera dello stesso Di Liborio, passato attraverso le partecipazioni a concorsi fotografici e galvanizzato dall’incontro con Ascolini e dalla consapevolezza che un fotografo professionista produce immagini in cui si possono riconoscere una funzione primaria ( o “funzione d’uso” ) per il quale il committente le ha richieste ma soprattutto una funzione secondaria, che per lui diviene senza dubbio la principale, che deriva da un utilizzo differenziato delle medesime immagini, come accade per esempio quando sono esposte in una mostra come oggetti estetici.
Il concettualismo segna infatti ogni manifestazione della cultura figurativa più recente, a partire dalla seconda metà del novecento, irradiando anche l’attività di quei fotografi, come Di Liborio stesso, che oltre alla ricerca estetica lasciano trasparire nelle loro immagini la trama progettuale che le innerva, presentandole non più come conchiuse in se stesse, ma come facenti parte di un racconto indiretto.
Ed è proprio in quella linea di fotografia ben radicata sul suolo reggiano, definita “metafisica” , che possiamo collocare il lavoro di Cesare Di Liborio. Non si tratta dell’opera di autori che hanno sposato una precisa estetica, anzi, come abbiamo visto, si tratta piuttosto di un versante percorso sia da fotografi vicini ad una concezione soggettiva della fotografia che da professionisti specializzati magari nel reportage, accomunati dalla predilezione per il paesaggio umano più che naturale, per la riflessione interiore più che quella sul vissuto e per il pensiero intenzionato ad organizzare la varietà del reale.
Spostandoci ora nell’altro contesto culturale da cui trae stimoli e in cui si sviluppa una buona parte della carriera dell’autore reggiano, ovvero quello francese, ed in particolare la realtà della Provenza, occorre innanzitutto riconoscere l’importanza avuta anche in questa occasione da Vasco Ascolini. Grazie a lui Di Liborio entra in contatto con personaggi influenti della cultura francese di ambito fotografico e non solo quali J.C. Lemagny, primo direttore e fondatore della collezione di fotografia contemporanea alla Bibliotheque Nationale di Parigi, C.H. Favrod, ideatore e fondatore del museo per la fotografia de l’Elyseé di Losanna, Jean Arrouye, professore emerito all’Università di Provenza a Aix en Provence e critico d’arte, Philippe Arbaizar, conservatore della fotografia al Patrimonio a Parigi, Michel Quentin e M. Dieuzaide, fotografi. Lo stesso Di Liborio afferma: “Ad Arles ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere persone del mondo della fotografia che prima leggevo solo sui libri o nelle riviste. Queste persone guardavano le mie fotografie con la stessa attenzione che prestavano alle immagini di fotografi più importanti, discutevano con me, mi consigliavano. Per un giovane che si affaccia al mondo della fotografia, non ci può essere situazione più favorevole, gli stimoli sono tantissimi.”
Proprio per questa apertura e considerazione verso le nuove tendenze e i nuovi nomi della fotografia, per la modestia di questi grandi personaggi e la ricchezza di stimoli che ne proviene, Di Liborio si innamora della realtà francese ed elabora negli anni a seguire alcuni tra i suoi migliori progetti fotografici: “I Portali”, “Il Verde” e “Turismo quotidiano”. In particolare inizia uno strettissimo rapporto di collaborazione con il Museo Reattù di Arles e la sua direttrice Michéle Moutashar, la persona che indubbiamente ha donato maggior visibilità alle suo fotografie a livello internazionale incoraggiandolo ad esporre nel suo museo la serie “I Portali” (divenuti in quell’occasione “Les Colonnes d’Hercules” e per il cui catalogo Le Goff scriverà un saggio introduttivo) proprio durante lo svolgimento dei Rencontres Internationales de la Photographie, prestigiosissima vetrina per il passaggio di estimatori e critici.
Durante questa esposizione avrà modo di incontrare il fotografo Willy Ronis ed entrare in contatto con Weston Naef, direttore della prestigiosa collezione fotografica del J. P. Getty Museum di Los Angeles che acquisirà alcune fotografie della serie per la sua raccolta e con Olivier Spillebout, direttore di Transphotographique Lille, che gli proporrà di partecipare con lo stesso lavoro alla prima edizione del festival in programma per l’anno successivo. Grazie al ritorno di immagine ottenuto da questa esposizione Di Liborio otterrà anche la possibilità di esporre le sue fotografie presso la prestigiosa sede del Parlamento Europeo a Bruxelles, su proposta dell’Associazione Culturale Lettera22 e due immagini, fra cui quella pubblicata sulla copertina del catalogo, saranno richieste anche dal Victoria and Albert Museum di Londra.
In poche parole quella che secondo il nostro autore sembra essere la fondamentale differenza tra la realtà francese e il contesto emiliano, è la mancanza di una cultura fotografica radicata sul suolo italiano; basti pensare, afferma l’autore,“alla realtà delle gallerie e della vendita di immagini. Se si tolgono quei filoni che entrano nell’area del commerciale, per quello che è la vendita di fotografie, abbiamo il deserto più totale: per lo stesso prezzo si preferisce una prodotto di basso livello, venduto magari sulle bancarelle da un pittore “domenicale”, piuttosto che una fotografia di un autore con un minimo di curriculum.
Per un fotografo creativo in Italia non ci sono grandi sbocchi. Le possibilità espositive non sono tantissime e i nomi in circolazione sono spesso gli stessi; sembra quasi che nessuno si voglia far carico del rischio di esporre un giovane autore; anche questo per un fattore di cultura e mentalità differenti.”
Proprio per tutta questa serie di aspetti sfavorevoli allo sviluppo di una nuova carriera artistica sul suolo italiano, ed emiliano nello specifico, nonostante il grande aiuto datogli da Ascolini, ecco allora che Di Liborio accetta volentieri l’appoggio, i consigli e la visibilità ottenuti nel contesto francese. Qui infatti personaggi del calibro di Lemagny o Le Goff si dimostrano disposti a considerare con eguale dignità l’opera di un giovane autore che muove i primi passi nel mondo della fotografia e quella di un nome già affermato, come ha avuto la fortuna di sperimentare direttamente lo stesso Di Liborio.
1.4 La collaborazione con Valeria Montorsi
Il percorso dell’opera di Valeria Montorsi ha più di un punto di contatto con quella di Cesare Di Liborio.
Nasce a Reggio Emilia nel 1966, inizia a fotografare nel 1991 ed anche per lei gli incontri con Vasco Ascolini, Migliori, Favrod ed altre illustri personalità della realtà francese sono tappe fondamentali per la definizione della propria opera.
L’amicizia tra i due autori nasce alla metà degli anni novanta, in un periodo di intensa formazione per entrambi e si rafforza a tal punto da sfociare negli unici due lavori della carriera di Di Liborio realizzati a quattro mani: la campagna di rilievo delle Cantine Sociali di Fabbrico, del 1999, su commissione dello I.A.C.P. di Reggio Emilia e “La corte dei frati”, una serie fotografica realizzata negli stessi anni, su commissione di Luigi Maramotti, in un convento del 1500, in attesa di essere restaurato.
In entrambi i lavori la collaborazione è stretta, soprattutto nella fase di osservazione: i due fotografi visitano il luogo varie volte prima di effettuare i primi scatti, ne colgono l’atmosfera ed elaborano criteri comuni nella resa degli spazi architettonici. Le simmetrie devono essere rispettate, bandita ogni tipo di linea cadente, le verticali e le orizzontali devono tornare come tali, così come la luce deve rendere caldo ed intimo l’ambiente, deve creare suggestioni, trasfigurare, aggiungere calore all’inquadratura.
Dopo questa prima fase anche nel momento della realizzazione materiale degli scatti, gli intenti dei due artisti si compenetrano, nel senso che ognuno di loro tende a focalizzarsi su determinati elementi dell’ambiente occupandosi di metterli in risalto secondo la propria visione, ma è sempre pronto ad accettare suggerimenti costruttivi dal collega, sempre presente al suo fianco. Questa procedura è testimoniata anche dal fatto che dietro ad ogni stampa realizzata a quattro mani il primo nome scritto a penna corrisponda a quello dell’esecutore materiale dello scatto, mentre il secondo a quello del collaboratore.
Il viaggio virtuale che i due autori vogliono compiere all’interno delle strutture analizzate va percepito nella sua interezza, ma è in realtà suddiviso in due distinte fasi: “Percorsi” accompagna lo spettatore attraverso gli spazi esterni ed interni dell’edificio, partendo dal cortile ci si addentra nelle sale, nei corridoi, fino a giungere sul tetto; mentre nelle “Suggestioni” ci si sofferma sui particolari, sui giochi di luce ed ombra evocando delle sensazioni piuttosto che una vera e propria narrazione. Entrambi i fotografi, pur lavorando con un diverso formato (quadrato, 6×6, nelle foto di Di Liborio; rettangolare, 24×36, in quelle della Montorsi) hanno il medesimo peso nelle due sezioni; osservano insieme e nella comunanza di intenti decidono anche lo scatto da realizzare, pur di giungere a quanto si sono prefissi.
Già da questa importante collaborazione si può dedurre come il percorso fotografico di Valeria Montorsi si sviluppi da quel momento in poi su di una linea personale parallela per certi aspetti e divergente per altri a quella dell’amico Di Liborio.
Le sue aree di interesse rimangono circoscritte al paesaggio e all’architettura: in entrambi l’aspetto referenziale viene cancellato dal prevalere della visione soggettiva, proprio come accade in Di Liborio, ed in coerenza con questa sua scelta di campo evita di cadere negli stereotipi delle riviste turistiche, ma opta piuttosto per drastiche riduzioni spaziali, per violenti contrasti di ombre e luci, per un bianco e nero che poco concede alle morbidezze del chiaroscuro descrittivo, completamente diverso da quello dell’amico. Dei suoi paesaggi e delle sue architetture ci mostra l’impatto psicologico che un luogo duro e inospitale produce su di una visitatrice.
La sua rimane dunque una fotografia distribuita su due differenti binari: da una parte quello del valore estetico dell’immagine accuratamente costruita e dall’altra quello dell’effetto psicologico che privilegia il carattere surreale delle forme raffigurate.
I due fotografi continueranno a scambiarsi opinioni e consigli per il resto della loro carriera anche se non si troveranno più a lavorare a stretto contatto sul medesimo progetto; ma il fatto che Di Liborio abbia scelto, nella sua gelosa autonomia, di avvalersi della collaborazione di Valeria Montorsi, scegliendola tra tutti gli autori di sua conoscenza, testimonia in realtà la consapevolezza dell’autore di poter trovare in lei una comunanza di intenti e di resa stilistica.
2.1 “Turista per gioco” 1995/1996
(C 104 913 – C 104 922)
«Hic et nunc. Qui ed ora, sono avverbi, paradossalmente, non applicabili a queste immagini di Cesare Di Liborio. Direi piuttosto che vi si addice un avverbio altro: “altrove”. Questo perché, l’altrove non è necessariamente il luogo esotico, il distante, l’oltre i confini, il fuori territorio. Può essere invece un minimo mondo ampliato dal nostro immaginario, dal nostro desiderio di viaggiare oltre la quotidianità ma nel quotidiano. Il viaggio attorno al gioco, l’essere testimone di un mondo intimo e minimale è l’oggetto-soggetto della fotografia di Cesare.”
Così Vasco Ascolini, nel testo critico di apertura al catalogo della mostra “Turista per gioco”, riflette sul primo lavoro del fotografo reggiano ed amico, Cesare Di Liborio, ed aggiunge:
« Esse sono la messa in carta del giornaliero tentativo di evadere, appunto, dalla quotidianità. Il suo è il mondo del viaggiatore che torna, vorrei dire, come egli stesso dichiara, del “turista per gioco”.
Dopo avere seguito il nascere di queste cinquanta immagini, di volta in volta ho capito che egli stava scrivendo un diario per immagini ” .
Secondo Di Liborio infatti, quello che distingue a priori la fotografia amatoriale da quella professionistica è proprio l’idea che ne sta alla base, l’intento che permea la ricerca e la realizzazione dell’intero lavoro.
Ed è proprio questo che persegue per la prima volta in un nucleo di 50 immagini realizzate tra il 1995 e il 1996, in cui rientrano anche le dieci Vintage Print possedute dal CSAC di Parma, ed in cui troviamo quella riflessione sulla memoria e sull’immaginario, che, dopo l’incontro con Ascolini ed altri influenti personaggi del panorama fotografico emiliano, permeerà il suo lavoro negli anni a venire.
La serie completa infatti rappresenta il primo grande corpus del suo lavoro intorno al viaggio nella quotidianità e al ricordo, ma essa si smembrerà negli anni successivi in tre cicli distinti e raggruppati in altrettanti lavori: “Turista per gioco”, l’embrione del suo lavoro, i cui scatti ci riguardano in particolare in questa scheda critica, “Turismo quotidiano”, che avremo modo di affrontare tra breve e “Mare interiore”: una visione nostalgica ed ironica di quei luoghi di villeggiatura estiva che hanno accompagnato l’infanzia dell’autore.
I dieci scatti riconducibili al ciclo denominato “Turista per gioco” sono realizzati con due macchine fotografiche corrispondenti a differenti formati: la tedesca Leica M6 per il 24×36, come nella serie successiva “Turismo quotidiano”, e la svedese Hasselblad per il 6×6, ma la differenza qui sta nello scatto: non è quello veloce, silenzioso, quasi rubato del reportage bensì appare studiato e solido.
Non ci sono tagli azzardati, l’occhio della macchina si posa con fermezza sugli oggetti, li scruta con attenzione, si avvicina quasi a volervi penetrare, a voler sondare ogni singolo pertugio di questi giocattoli passati tra le mani di molti bambini, segnati dal tempo e dal vissuto di chi li ha posseduti. Le dimensioni reali dell’oggetto sembrano sparire così come la concretezza del tempo e dello spazio in queste visioni ravvicinate di aerei o automobili in latta, in cui l’osservatore ormai adulto torna bambino nel ricordo del gioco e contemporaneamente parte per un viaggio fantastico attraverso la realtà.
Di Liborio, durante le sue attente passeggiate tra le bancarelle dei numerosi mercatini dell’antiquariato della provincia di Parma e della Provenza (i dieci scatti infatti sono tutti realizzati tra S. Secondo Parmense, Fontanellato ed Arles), esplora con leggerezza gli angoli più remoti della sua e della nostra storia personale, portando alla superficie il nostro vissuto, la nostra infanzia in bianco e nero, le esperienze che ognuno di noi ha attraversato con le proprie peculiarità. Il viaggio che ci porta a sperimentare attraverso una fotografia non aggressiva o falsamente povera è quello delle minime sensazioni vissute attraverso il filtro della nostalgia.
La ricerca fotografica proposta dall’autore appartiene alla memoria di ognuno di noi, poiché risveglia ricordi, emozioni, sentimenti sopiti in chissà quale cassetto del nostro archivio personale.
La scelta del bianco e nero è già definitiva in questi lavori giovanili, come la scelta di stampare su carta baritata alla gelatina bromuro d’argento, perché il gioco delle luci rende più caldo ed intimo un luogo, crea ed aggiunge qualcosa o lo trasfigura nel viaggio della memoria.
Il bianco e nero per l’autore è una piccola magia che permette di plasmare l’immagine ad ogni stampa come fosse la prima, modulando i passaggi tonali in un coinvolgente susseguirsi di luci ed ombre, di forme geometriche e di colori impastati e digradanti ora verso il buio ora verso la luce.
C’è in questa serie di fotografie, un ritorno ad un ordine anche formale che può apparire facile approccio al reale, ma che invece è ricerca, distruzione del reale, ricostruzione immaginifica.
Le immagini di questo ciclo vanno osservate con gli occhi interiori, lasciando emergere la poesia e la nostalgia delle cose passate.
Ogni spettatore così come Di Liborio stesso può riscoprire una piccola parte di se stesso, può tornare bambino interpretando e adattando le immagini alla propria vita, può diventare il pilota dell’aereo, della macchinina, il passeggero del dirigibile o della mongolfiera che scorge sulle bancarelle di un mercatino di oggetti d’antiquariato o può riscoprire la sensazione del suo primo viaggio in treno o la gioia per l’automobilina di latta ricevuta in dono per il suo compleanno.
Il suo è un viaggiare attraverso un tempo metafisico che non è ora, ed un luogo, che non è altrove.
2.2 “Turismo quotidiano” 1996
(C 040 064 S – C 040 072 S)
I nove scatti riconducibili al ciclo denominato “Turismo quotidiano” e facenti parte, come si è detto in precedenza, di quell’originario corpus di 50 fotografie responsabili dell’ingresso di Cesare Di Liborio nel mondo della fotografia professionistica, sono tutti realizzati nel corso della stessa giornata all’interno della metropolitana di Milano, in un’atmosfera di totale sospensione spazio-temporale, come si percepirà ripetutamente in successivi lavori dell’artista.
Il formato è sempre il 24×36, ma per dare questa volta, a detta del fotografo, l’impronta del reportage, dello scatto veloce, silenzioso, quasi rubato; anche il modello di macchina usato lo testimonia: la Leica M6, è la stessa che negli anni 40 utilizzavano i grandi fotoreporter di guerra, Robert Capa ed Eugene Smith; maneggevole, silenziosa, di piccole dimensioni, tanto da poter essere portata al collo, magari sotto la camicia, senza dare troppo nell’occhio, così da fermare attimi, sguardi e sensazioni con il massimo della spontaneità.
E’ così infatti che si muove l’autore attraverso i tunnel della rete milanese: scruta con occhio attento gli individui, i loro gesti, le loro pose, carpisce quel che può dei loro discorsi e poi quando lo ritiene opportuno cattura furtivamente l’attimo, in modo del tutto casuale, spesso senza essere scorto, ma a volte incontrando lo sguardo incuriosito e sorpreso di un passeggero.
La tecnica di stampa è l’ormai consolidato bianco e nero su carta baritata, così da modulare il chiaroscuro e rendere calda ed avvolgente anche l’atmosfera di un ambiente spersonalizzato e caotico come quello del sottosuolo.
E’ curioso, in proposito, notare come l’autore evidenzi aspetti altresì insoliti della realtà metropolitana: non compaiono mai folle disordinate ed impazienti di riemergere al più presto per rituffarsi nella routine quotidiana, non si respira un’atmosfera tesa e frenetica, al contrario le scene appaiono pacificate, i tunnel silenziosi rappresentano rifugi dalla realtà di superficie, luoghi dove fuggire nei momenti di sconforto per ritrovare la tranquillità, incontrare umanità varie e rallentare il ritmo.
Sui marciapiedi quasi deserti e silenziosi poche persone leggono appoggiate a pilastri di cemento, dialogano amabilmente, si incontrano o si scorgono solitarie attraverso i finestrini di un vagone in corsa.
Il paesaggio urbano è cosparso di segni della modernità, su cui si posa spesso lo sguardo dell’autore, come i numerosi cartelloni pubblicitari affissi alle pareti dei tunnel metropolitani, ma considerando la serie nella sua interezza ci accorgiamo che quella che si percepisce è in realtà un’atmosfera di quotidianità: i soggetti fotografati diventano turisti del vivere quotidiano senza che se ne accorgano, affrontano il medesimo viaggio giorno dopo giorno, nelle strade della propria città , sui vagoni di un treno, assistendo allo spettacolo improvvisato di un musico, pur non riuscendo ad evadere dall’ordinario.
Ecco allora che Di Liborio ci suggerisce una riflessione sul modo più pratico per uscirne, per sostenere questa condizione senza far ricorso ai facili miti del consumismo.
E quale sembra essere l’unica soluzione? La fuga nella memoria: dei luoghi, degli oggetti, delle persone; nell’ironia e nel viaggio.
2.3 “Fabbrico, Centro di Pigiatura” 1999
(C 104 923 S – C 105 026 S)
In occasione dell’inizio dei lavori per la realizzazione del Piano Urbanistico Integrato denominato “Area Ex Cantina Sociale”, previsto nei primi mesi del 2000: le Cantine Cooperative Riunite di Reggio Emilia, l’Istituto Autonomo Case Popolari (I.A.C.P.), la Cooperativa Muratori Reggiolo e l’Amministrazione Comunale di Fabbrico, propongono alla cittadinanza e a futura memoria, una raccolta di fotografie dell’Ex Centro di Pigiatura, sede delle attività legate alla produzione del vino per circa mezzo secolo e la cui demolizione è prevista di lì a breve per lasciare spazio ad un complesso residenziale rispettoso dello spirito di socialità tutt’ora presente in quei luoghi.
Dalla fine degli anni trenta, infatti, la struttura fondata da un gruppo di coltivatori per soppiantare il dominio delle piccole cantine poderali, ha rappresentato un punto di riferimento per l’industria enologica della bassa reggiana ed un fondamentale trampolino per lo sviluppo economico e sociale della zona. A seguito della trasformazione dei costumi e dei consumi e quindi dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti enologici, l’attività della storica sede fabricese è però costretta a cessare all’inizio degli anni novanta, per lasciar spazio ad una riqualificazione edilizia dell’abitato in grado di convertire le aree dismesse e degradate, come ormai appaiono quelle della ex-cantina, in quartiere residenziale fruibile dalla cittadinanza.
Ed è proprio a questo punto che si innesta il rilievo di archeologia industriale realizzato da Cesare Di Liborio tra il febbraio e il marzo 1999, in collaborazione con la fotografa reggiana Valeria Montorsi, su commissione dell’amministrazione comunale di Fabbrico e di tutti gli organi coinvolti nel progetto di riqualificazione urbana.
Esso rappresenta la più consistente tra le serie fotografiche dell’autore acquisite dal C.S.A.C. di Parma attraverso un lascito del fotografo Nino Migliori, che a sua volta si era premurato di raccogliere nei primi anni novanta il lavoro di quei giovani autori che si potevano considerare appartenenti alla “nuova scuola emiliana” e che guardavano alla sua esperienza pluridecennale come modello da imitare, ma soprattutto da cui trarre spunti per nuove tendenze figurative.
Il ciclo comprende 103 stampe fotografiche in bianco e nero, “vintage print”18, alla gelatina bromuro d’argento19 su carta baritata20, non modificate elettronicamente ed autografate sul verso dagli autori.
Le stampe hanno tutte la medesima dimensione (mm 238 x 302), ma i formati utilizzati dai due fotografi sono differenti: 6×6 per gli scatti attribuiti a Di Liborio, 24×36 per quelli della Montorsi. Il lavoro viene realizzato e concepito a quattro mani dagli autori e si suddivide in due sezioni: la prima, “Percorsi”, ci accompagna in una sorta di passaggio attraverso gli ampi spazi esterni ed interni alla fabbrica ed i luoghi del vissuto, mediante immagini descrittive, ma di piccolo formato; nella seconda, invece, “Suggestioni”, emergono le tracce del luogo, la materia racconta se stessa attraverso i segni e gli scatti, con un uso astrattizzante e metafisico delle luci, si coglie l’intimità e le emozioni degli ambienti, rivelando un lato suggestivo ed insolito di uno spazio all’apparenza freddo e desolato.
Questa comunanza di intenti ed una così stretta collaborazione, non sono usuali nei lavori del fotografo reggiano, che anzi predilige l’autonomia progettuale e realizzativa, tanto da ripetere l’operazione solamente in un altro rilievo architettonico intitolato “La corte dei frati” e realizzato su commissione di Luigi Marmotti in un convento del 1500, sempre in collaborazione con Valeria Montorsi, collega e amica sin dai suoi primi passi nel mondo della fotografia professionistica.
Questo testimonia come un lavoro svoltosi a contatto di un luogo la cui materialità subirà quanto prima un radicale intervento dovrà svilupparsi secondo una logica comune non rintracciabile in qualsiasi collaboratore.
Il lavoro a quattro mani è fatto soprattutto dagli sguardi: guardano insieme, aprono per la prima volta dopo anni la porta su ambienti ancora inesplorati, si indicano l’un l’altro le cose e ognuno ne scrive una versione, tanto da apporre sul verso di ogni fotografia prima la firma di chi ha realizzato materialmente lo scatto e poi quella dell’autore collaboratore.
All’epoca di questo lavoro nell’artista, influenzato sicuramente dall’incontro nel 1997 con Italo Zannier e la conoscenza di Nino Migliori, si rafforza la volontà di affrontare determinate tematiche, incentrate sulla memoria e sui luoghi ed in qualche modo l’incarico affidato ai due fotografi è l’occasione perfetta per farlo immediatamente. Il loro operato infatti si può definire come il “negativo” della classica fotografia industriale, di quella che potrebbe essere fatta all’edificio al momento della costruzione, quella che forse verrà fatta alle abitazioni che ne prenderanno il posto. Nei classici lavori di campagna pubblicitaria industriale, infatti, l’immagine di un luogo viene generalmente costruita per collocarla nella memoria collettiva attraverso retoriche ben definite quali l’ampiezza dei locali, l’ordine, la pulizia, che passano attraverso una certa efficienza della scrittura fotografica: i colori netti, il grande formato, la scena gradevole e pacificata. Tutto deve essere ben visibile, illuminato senza contrasti troppo netti.
Qui invece abbiamo uno spazio strettamente legato alla memoria e al vissuto del luogo, agli abitanti di Fabbrico, alla storia del suo sviluppo di piccolo abitato rurale della campagna reggiana. L’edificio non deve perciò essere visto solo come un contenitore vuoto, come un volume degradato, ma come una traccia che sta per uscire dal paesaggio e di cui bisogna salvare la memoria già stratificata, darle una proiezione ed una durata diversa.
Non è certo un caso che alla realizzazione di questo lavoro contribuiscano altri fotografi quali Vasco Ascolini, coinvolto nella concezione dell’opera ed in grado di influenzarla con la sua scrittura metafisica, soggettiva e lontana dalla trasparenza documentaria, mentre Nino Migliori si interessa agli esiti, segue lo svolgersi della storia man mano che escono le prime stampe; Migliori per cui i muri, le superfici della città e dei luoghi abitati sono schermo di proiezione della memoria collettiva.
Montorsi e Di Liborio hanno presente tutto questo: entrano nella cantina, aprono le finestre nel buio, vedono e fotografano subito, si appropriano di uno spazio dopo l’altro con un gesto di esplorazione, giocano ambiguamente con il valore formale delle singole immagini, spostandolo sul piano comunicativo, legandole in una sequenza che delinea un preciso racconto. Sanno che la fotografia non è rilievo, impronta della realtà, ma scrittura con una precisa sintassi: il bianco e nero del documentarismo, del réportage, ma nello stesso tempo la ricerca del dettaglio che balza fuori dall’evento e lo mette tra parentesi.
Le immagini della prima parte “Percorsi” ci guidano prima fuori e intorno ai muri dell’edificio e poi ci introducono nella struttura, dove a tratti l’architettura viene presentata con assonanze navali (ringhiere, oblò, paratie e passerelle) e a tratti gli spazi sembrano abbandonati da poco, ma anziché essere impiegate per descriverne esclusivamente gli aspetti architettonici e i caratteri dell’arredamento, secondo i modelli delle riviste di settore, si soffermano anche su piccole porzioni d’ambiente, quali per esempio particolari di intonaco scrostato e macchie di umidità che si mangiano l’inquadratura la quale mantiene comunque un impianto centrale molto solido. Lo sguardo di Di Diliborio predilige la fuga prospettica centrale, la monocularità della prospettiva fotografica, le linee strettamente verticali ed orizzontali, anche se l’ombra e la luce proiettate sui segni in modo apparentemente catalogico, in realtà li pervadono di uno sguardo intimista.
Nel ciclo di Fabbrico, infatti, i taglienti passaggi dall’ombra alla luce, le inquadrature quasi sempre simmetricamente scandite da particolari architettonici (pilastri, finestre, portoni) non vogliono mostrarci un ambiente per farcene conoscere le particolarità topografiche, ma intendono raffigurare luoghi e situazioni di lavoro, fornire una rappresentazione sentimentale, vale a dire mostrare l’impatto psicologico che un luogo duro ed inospitale ha prodotto sugli osservatori, visitatori novizi.
Nell’intento di suscitare questo tipo di sensazioni nello spettatore, Di Liborio non ha scelto a caso di avvalersi della collaborazione di Valeria Montorsi, un’artista nel cui lavoro sulla rappresentazione dei luoghi l’aspetto referenziale viene cancellato dal prevalere della visione soggettiva. In altri suoi lavori infatti evita di cadere negli stereotipi, per esempio delle riviste turistiche, ed opta piuttosto per drastiche riduzioni spaziali, per violenti contrasti di luce ed ombra, per un bianco e nero che poco concede alle morbidezze del chiaroscuro descrittivo.
Qui la Montorsi procede per campi e contro campi, la leggibilità delle superfici è a tratti cancellata dalle luci esterne che sfondano le pareti, la grana e la polvere stendono velature ruvide sugli stacchi netti di tono. Il suo occhio privilegia le scritte sui muri, le tracce di intonaco caduto e gli oggetti personali abbandonati sul pavimento di una stanza, insomma quegli aspetti fuori dalle righe, che solitamente non si tendono ad evidenziare in un ambiente industriale. Ne consegue che la visione di quest’ultimo non si esaurisce in se stessa, ma sottintende la presenza di un fruitore in grado di percepirne l’atmosfera di intimità, che però si sta per spezzare, in vista dell’imminente demolizione.
Possiamo sostenere a questo punto della nostra analisi che questa serie di fotografie non si presenta soltanto come una descrizione, ma si trasforma in un racconto, un reportage indiretto, poiché ci consente di leggere in filigrana la cronaca di una giornata qualsiasi dei suoi abitanti, cadenzata da rituali ed azioni ormai abituali.
La fotografia di questi due autori segue quindi un doppio binario: da un lato è attenta al valore estetico dell’immagine e ce lo mostrano appunto i tagli accuratamente scelti, che puntano ad individuare forme astrattizzanti, le inquadrature e l’uso degli obbiettivi; dall’altro punta sull’effetto psicologico attraverso l’enfasi chiaroscurale, che privilegia il carattere surreale delle forme raffigurate.
Quel che rende poi ancor più metafisico l’ambiente è il suo essere ormai ripulito da ogni traccia fisica di personaggi, siano essi umani o animali, ma questa sua assenza di vita, che psicologicamente equivale all’immobilità e alla sospensione del tempo, non è totale, rimangono tracce materiali della mano dell’uomo, della sua recente presenza, anche se persino i due corpi dei fotografi sembrano non invadere il silenzio di quelle sale.
Agosto 2005: Basilicagoiano (Parma), Via Parma 14, abitazione dell’autore…
Cominciamo con il parlare un po’ del tuo ingresso nel mondo della fotografia cosìddetta “professionale”: che cosa ti ha spinto ad intraprendere questo tipo di carriera? Quali sono stati gli stimoli e gli incontri fondamentali per la formazione della tua poetica e del tuo immaginario?
In un nostro precedente incontro mi hai indicato come fondamentali tre personaggi: Vasco Ascolini, Michèle Moutashar e Christian Breton.
Cosa ti ha lasciato ognuno di loro e per cosa li ringrazieresti singolarmente oggi.
Per quanto mi riguarda, la differenza tra la fotografia professionale e quella amatoriale, è il diverso approccio mentale ad essa, insieme alla presenza di un progetto di base. Dopo un periodo della mia vita dove ho praticato un tipo di fotografia amatoriale, senza grandi progetti, producendo immagini fini a se stesse, ho sentito la necessità di fare qualcosa di più, ho sentito la necessità di dire qualcosa con le mie immagini. Non mi interessava più partecipare a tanti concorsi sempre con lo stesso scatto, magari vincente, ma pur sempre isolato, che non raccontava nulla al di fuori della sua bellezza estetica, volevo invece raccontare qualcosa con una serie di immagini, volevo fare capire a chi guardava le mie fotografie quello che la mia testa e il mio cuore producevano, o più semplicemente volevo trasmettere l’emozione di un progetto sviluppato attraverso un insieme di immagini.
Già nel periodo amatoriale conosco il fotografo Vasco Ascolini e gli chiedo qualche consiglio facendogli vedere le mie fotografie. Da quel momento inizia a seguire il mio lavoro senza imporsi, attende che io percepisca la necessità di fare qualcosa di diverso ed è in quel momento mi sprona ad abbandonare definitivamente lo scatto amatoriale. Mi fa capire quale tipo di strada devo prendere, mi stimola a sviluppare il primo progetto: “Turista per gioco” e mi segue nella sua realizzazione. Non impone mai il suo pensiero né la sua tecnica fotografica, non a caso il suo modo di stampare è totalmente diverso dal mio, piuttosto stimola quegli impulsi che io ho e dei quali parlo con lui.
Nei seguenti anni, mi insegna tutto quello che lui ha costruito in trent’anni di carriera. Imparo il rigore e la precisione applicati alla tecnica, mi presenta a tutte le persone che lui frequenta nel campo della fotografia, fra queste Michèle Moutashar e Christian Breton.
Michèle Moutashar, direttrice dei musei di Arles, piccola cittadina della Provenza francese votata alla fotografia, la conosco nel 1996. Le porto a visionare il mio primo lavoro “Turista per gioco” e subito ne acquisisce alcune foto per la collezione del Museo Reattù. Entrare a fare parte della collezione di questo museo, dove sono nati i Rencontres Internationales de la Photographie, è stato per un principiante come ero allora, uno stimolo enorme. Era emozionante il pensiero che alcune mie fotografie fossero conservate da un’istituzione di quel livello. Negli anni che seguono Michèle Moutashar continua a seguire ed incoraggiare il mio lavoro fotografico, mi fa partecipare a diverse esposizioni collettive importanti e nel 2000 mi propone una personale nel suo museo. Nasce così “Les Colonnes d’Hercule” che verrà mostrato in concomitanza con i Rencontres Internationales de la Photographie del 2000 e Jacques Le Goff si occupa del testo critico del catalogo. Di più non avrei potuto chiedere. Nel tempo il rapporto continua sia sul lato professionale, con altre mostre personali, collettive e incarichi, sia sul piano dell’amicizia.
Anche Christian Breton lo conosco nel 1996, amico di Vasco Ascolini bravissimo fotografo e stampatore di qualità sopraffina. Vedo le sue immagini e rimango letteralmente colpito per la qualità e la bellezza. Nel 1998 mi invita a partecipare ad una serata a Salon de Provence dove espongo un mio lavoro e partecipo al dibattito con il pubblico. Quella sera gli chiedo, pur con qualche timore reverenziale, se è disposto ad insegnarmi la sua tecnica di stampa. Senza alcun problema mi ha dato subito alcune dritte, mi ha spiegato la tecnica e qualche piccolo segreto. Ci siamo lasciati dandoci appuntamento per la visione delle prime stampe fatte col suo sistema, e da lì ha continuato a seguirmi e consigliarmi.
Queste sono le tre persone che, se dovessi restringere il campo al minimo, direi siano state fondamentali per il mio percorso fotografico. Vasco Ascolini mi ha fatto capire quale era la strada che dovevo prendere e mi ha regalato tutto il suo bagaglio di esperienza e di conoscenze, Michèle Moutashar ha dato la visibilità ad alto livello alle mie fotografie, Christian Breton mi ha regalato una qualità di stampa che non avrei mai potuto avere in altro modo. Una cosa è certa: la loro conoscenza mi ha cambiato la vita.
Una delle tematiche centrali della tua poetica, sviluppatasi soprattutto dopo l’incontro con Nino Migliori, è sicuramente quella della memoria, in particolare dei luoghi, come attestano numerosi tuoi lavori quali il rilievo presso l’Ex Centro di Pigiatura di Fabbrico, l’Ex Zuccherificio Eridania di Parma o la vecchia sede Max Mara a Reggio Emilia. Da questo aspetto fondamentale del tuo lavoro mi dici si distaccano altri spunti tematici che ne divengono quasi dei corollari e da cui sfoceranno altrettanti lavori fotografici quali: il turismo quotidiano, il mare interiore, il viaggiatore bambino, l’intimità delle cose e l’ironia.
Illustrami meglio questi aspetti del tuo lavoro.
Ho iniziato a frequentare Nino Migliori prima di iniziare a fotografare in modo professionistico. Insieme ad un gruppo di amici organizzavamo una serie di serate a tema a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia. Invitavamo un fotografo ad esporre e la stessa sera dell’inaugurazione davamo vita al dibattito. Uno di questi fu Nino Migliori. In seguito andai a trovarlo nel suo studio e a casa. Quando iniziai a fare i primi lavori, glieli portai per avere un suo parere. Li guardava, poi iniziava a domandarmi di tutto, voleva chiaramente capire se sotto alle immagini c’era un progetto chiaro e preciso. Spesso si divertiva a stravolgere l’ordine delle stampe e a chiedermi cosa ne pensavo. Gli ho sempre detto che quando uscivo da casa sua, mi sembrava di essere uscito da una centrifuga, la testa era piena di idee nuove e lo stimolo a creare era incredibile.
E’ Nino che mi ha spinto a sviluppare il discorso della “memoria”.
Guardando le prime foto di “Via Parma, 14”, solo un piccolo embrione del lavoro, trovò che quello poteva essere un percorso interessante per quanto riguardava la tematica del legame affettivo con i luoghi e del piacere che può scaturire dall’intimità delle cose.
La ricerca di quelle cose normali, quotidiane, che per abitudine non vediamo più, quelle cose che guardate più attentamente, con la giusta luce, nella loro semplicità mostrano la loro bellezza.
Gli altri spunti tematici dei quali mi accenni, come mare interiore o il viaggiatore bambino, sono comunque molto legati alla mia memoria. Il viaggiatore bambino che ritrovi in “Turista per gioco” non è altro che la mia storia, il mio passato. Per esempio il ricordo di quelle fantastiche insegne di stabilimenti balneari del mare che io frequentavo da bambino. Anche l’ironia è una tematica che talvolta amo inserire nelle mie immagini, come ad esempio la rete da pallavolo in mare o ancor più ironica la doccia. L’ironia si ritrova in seguito anche nelle Colonne d’Ercole dove fotografo cancelli dimenticati, chiusi sul nulla ma che si possono tranquillamente aggirare.
In questo tempo, dove la vita scorre alla velocità della luce, perdiamo di vista le cose più semplici, ma non per questo meno interessanti. Soprattutto viviamo così velocemente che non abbiamo il tempo per ricordare, dobbiamo sempre guardare avanti per rimanere al passo coi tempi e quello che è passato lo dimentichiamo. Questi sono i motivi per i quali ho sentito la necessità di fermarmi e di lavorare sulla memoria. Da qui “Via Parma, 14”, ma anche tutti quei lavori che, mantenendo un cammino creativo senza cadere tuttavia nel documentario, sono indirizzati verso quelle cose che col tempo cambiano e inevitabilmente vengono dimenticate per come erano in origine. “Fabbrico, Centro di Pigiatura”, incarico commissionato dall’Istituto Autonomo Case Popolari, è la memoria di una vecchia cantina sociale che non esiste più. Al suo posto, sono state costruite abitazioni popolari. “Zuccherificio Eridania”, invece, è quello che c’era prima dell’attuale Auditorium Paganini studiato e costruito da Renzo Piano ed è nato grazie alla segnalazione di una persona che mi ha informato della sua riqualificazione a breve termine. Per MaxMara il discorso è diverso, se per gli altri quello che mi interessava era preservare la memoria storica, per MaxMara entra in gioco anche la memoria personale, essendo una azienda dentro la quale ho vissuto 20 anni della mia vita. Mi è stato chiesto di effetuare la rilevazione fotografica prima del suo cambiamento di destinazione e mi sono ritrovato così a fotografare ambienti che conoscevo perfettamente, legati profondamente al mio passato e al mio vissuto quasi come quelli di “Via Parma, 14”.
Mi sono sempre detto che se non impariamo a conservare la nostra memoria, il tempo lentamente la cancellerà e il futuro senza le radici del passato non è un gran futuro.
Mi dici spesso di essere stato molto fortunato nel corso della tua carriera, soprattutto per quel che riguarda l’ottimo “feeling” che hai instaurato con la realtà della fotografia provenzale, ricca di tradizione, di iniziative e nel contempo di grandi spinte verso il futuro, ma soprattutto prestigiosa vetrina internazionale per professionisti del settore come te.
Quali sono le principali analogie e differenze che riscontri rispetto al panorama italiano e quali vantaggi hai tratto dalla frequentazione di questa realtà?
La realtà fotografica francese è totalmente diversa da quella italiana, potremmo disquisire fino ad ora tarda per elencare le differenze di questi due mondi.
Credo che alla base di tutto ci sia la mancanza di cultura fotografica in Italia. Sarebbe troppo banale dire che la fotografia è stata inventata in Francia, voglio invece fare notare che, a parte qualche piccola e sparuta realtà privata, o qualche corso universitario, di vere scuole di fotografia statali, come ne esistono in Francia, qui da noi non esistono. In Francia, come negli Stati Uniti, lo stato ha fatto vere e proprie campagne fotografiche per la rilevazione del territorio. La fotografia in Italia è sempre stata la sorella povera di qualsiasi altra forma di arte visiva. Non abbiamo nemmeno la cultura della collezione fotografica, in altri stati esistono musei dedicati solamente alla fotografia, in Francia è conservata nei musei al pari di qualsiasi altra forma d’arte. In Italia, siamo riusciti ad avere il primo museo statale di fotografia solo quest’anno…e faccio notare che la fotografia esiste da più di 150 anni! Senza considerare che tutto quello che viene fatto in Italia è in mano ad organizzazioni private.
Per non parlare poi delle gallerie e della vendita di immagini. Se si tolgono quei filoni che entrano nell’area del commerciale, per quello che è la vendita di fotografie, abbiamo il deserto più totale: per lo stesso prezzo si preferisce una crosta venduta sulle bancarelle da un pittore domenicale, piuttosto che una fotografia di un autore con un minimo di curriculum. Per un fotografo creativo, in Italia non ci sono grandi sbocchi. Le possibilità espositive non sono tantissime e se guardate, sono sempre gli stessi nomi che girano. Del rischio di esporre un giovane nessuno se ne fa carico, anche questo è un fattore di mentalità, di cultura. All’estero esistono programmazioni dedicate solo ai giovani, concorsi per soli autori al di sotto di una determinata età. Se non diamo spazio ai giovani, la fotografia in Italia non potrà mai avere linfa nuova, nuove idee, e rimarremo sempre al traino di altri. Cultura fotografica non è solo fare la mostra del grande autore, è anche insegnare ai giovani come fare fotografia, è dare loro la possibilità di emergere.
Ho iniziato ad andare in Francia nel 1996. All’inizio era per curiosità, avevo sentito parlare dell’importanza di Arles e dei Rencontres Internationales de la Photographie. Mi sono subito reso conto di come non diano importanza al nome, ma a quello che vedono stampato. Ad Arles ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere persone del mondo della fotografia che prima leggevo solamente sui libri o nelle riviste. Queste persone guardavano le mie fotografie con la stessa attenzione che prestavano alle immagini di fotografi più importanti, discutevano con me, mi consigliavano. Per un giovane che si affaccia al mondo della fotografia, non ci può essere situazione più favorevole, gli stimoli sono tantissimi.
L’esposizione al Museo Reattù nel 2000, in concomitanza con i Rencontres Internationales de la Photographie, mi ha dato una grandissima visibilità. Di seguito ho avuto richieste per esporre in luoghi importanti come il Parlamento Europeo a Bruxelles o entrare in collezioni come il Victoria and Albert Museum di Londra o il Getty Museum di Los Angeles. Ma quello che Arles e la Francia mi hanno dato maggiormente sono le conoscenze, le amicizie, gli scambi di esperienze, tutte quelle cose che ti aprono la mente ti permettono di realizzare una fotografia di buon livello.
Mi interesserebbe ora approfondire il discorso sulla genesi di un tuo lavoro: come si costruisce?
L’idea che ne sta alla base scaturisce dopo lunghe riflessioni o ti lasci guidare principalmente dall’intuizione e dagli stimoli che raccogli ogni giorno intorno a te?
Ovvero nella tua mente c’è già uno schema da seguire ancor prima di effettuare il primo scatto o il nucleo centrale prende forma strada facendo lasciandosi anche andare alla spontaneità e al richiamo delle sensazioni?
Solitamente i lavori che sviluppo nascono da un progetto ben preciso. Inizio a scattare solo dopo che ho ben chiaro quello che voglio fare. Le prime immagini mi servono per capire se sono sulla giusta strada, se il discorso è unitario, se messe insieme “funzionano”. Dopo questo primo studio, di solito faccio tutti gli scatti del progetto. Detto così potrebbe sembrare una cosa semplice, non sempre lo è. La parte più difficile è il progetto, a volte per il suo sviluppo è servito molto tempo. Lascio che l’idea prenda piede, solitamente non è mai la prima quella buona. La abbandono e la riprendo fino a quando sento che è quella giusta. Un progetto può nascere da molti input, una frase, un’idea, un incarico o magari da qualcosa che senti dentro. Una volta che ho deciso cosa sviluppare, penso a tutto quello che serve per portare a termine l’idea. Per dar vita ad un lavoro, per poter trasmettere le tue sensazioni e far capire quello che vuoi con le tue immagini è importante che non si tralasci nulla. Non è solo l’elaborazione mentale delle immagini quello che fa di un progetto un buon progetto, è anche lo studio dei materiali da utilizzare. Si deve curare ogni cosa, dall’idea iniziale alla esposizione finale. Quando realizzo una fotografia, tutto deve avere un senso: la grandezza dell’immagine, il tipo di carta e la pellicola utilizzata ma anche il semplice passepartout che la circonda. Tutto deve rendere, a chi guarda le mie fotografie, quello che la mia testa e il mio cuore hanno elaborato.
Pensare a tutto non vuol dire che non si lasci qualcosa all’emozione. L’emozione la ritrovo nel preciso momento in cui incontro la giusta inquadratura…in quel momento l’immagine non la vedo, la sento, sento che è quello lo scatto da fare. Credo che se fotografassi senza un progetto ben preciso, lasciandomi prendere dall’emozione occasionale, non riuscirei a creare un discorso unitario, non riuscirei ad avere immagini legate da un filo conduttore.
Per concludere, entrando in un ambito un po’ più tecnico, mi incuriosirebbe approfondire il discorso della tua scelta di lavorare con il bianco e nero e con “la sua piccola magia”, come lo hai definito più volte. Quali componenti pensi aggiunga ad uno scatto e quali sensazioni provochi nell’osservatore e in te stesso in primis.
Non so se il bianco e nero sia o meno un valore aggiunto ad uno scatto, so che, per quanto mi riguarda, mi stimola di più. Ho iniziato a fotografare perché un anziano fotografo di guerra mi ha insegnato che esisteva un mondo che si chiamava fotografia. Mi insegnò l’ABC e mi fece vedere come si stampavano le fotografie, chiaramente bianco e nero, visto il suo retaggio professionale. Fu lì che ammirai per la prima volta questo tipo di stampa, provai anche io, e da allora ho sempre pensato che il momento nel quale appare l’immagine sul foglio bianco sia “una piccola magia”. Ancora oggi, quando stampo per la prima volta una fotografia e vedo affiorare l’immagine sul foglio bianco, è sempre un’emozione.
Come ho detto sopra, l’immagine in bianco e nero mi regala stimoli maggiori. Uno dei lavori fotografici che ho realizzato ha il titolo “Verde que te quiero verde”, una testimonianza dell’amore che ho per il verde e la natura. In molti mi domandano perché non l’abbia realizzato a colori. A tutti rispondo che in quelle immagini i colori ci sono tutti, basta fermarsi ed osservare….voglio dire che non è necessario lavorare a colori per vedere il colore, può anche essere la tua immaginazione a colorare quello che non lo è, ma nello stesso tempo un’ immagine in bianco e nero può regalare l’illusione di riuscire a fermare il tempo.
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