testo di Massimo Mussini
Si può dire che la fotografia sia nata per il viaggio, o meglio che fotografia e viaggio in senso moderno siano cresciuti insieme se pensiamo alle prime applicazioni del mezzo, a quelle Excursions daguerriennes che mettevano a disposizione dei lettori immagini incise tratte da daguerrotipi realizzati in giro per il mondo. Da allora fotografia e viaggio sono divenuti sinonimi poiché la maggior parte delle fotografie hanno avuto ed hanno tuttora come tema quello del viaggio. Fotografare è «ricordare», nel senso che le immagini fotografiche hanno assunto la funzione di riportare sotto i nostri occhi quanto è stato (o più spesso non è stato) guardato durante il viaggio, divenendo così sostituti della realtà più che sua annotazione. Per questo ogni volta che guardo fotografie di viaggio (da quelle private che tante volte capita di vedere a casa di amici che sono appena reduci da qualche itinerario per il mondo, a quelle più pretenziose che il fotoamatore realizza con intenti creativi andando a cercare all’altro capo del mondo le cose che può benissimo trovare sotto casa) mi trovo a pensare che se Nièpce e Daguerre non ci avessero regalato la fotografia, forse parlare di viaggi, oltreché viaggiare, sarebbe meno stressante.
Guardando le fotografie di Di Liborio mi sono invece trovato a pensare ad un’altra cosa, mi è venuto in mente un libro letto di recente, Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino, che conduce in un viaggio straordinariamente antifotografico se così possiamo chiamarlo, perché nient’affatto tenuto sui binari del conformismo, del già visto (nel caso specifico, del già letto). Il viaggio di Calvino non è certo un itinerario d’agenzia, di quelli che vengono appunto propinati ai fotografi per i loro fotosafari nei più svariati ambienti, ma un viaggio della mente entro se stessa, un viaggio dell’immaginazione che si muove stando seduta a tavolino e che crea situazioni sempre nuove e consequenziali; ma di una consequenzialità che con la logica razionale ben poco ha a che fare, poiché segue la traccia sottile ed imprevedibile delle associazioni di idee liberate dall’inconscio.
Così appare anche il viaggio che ci propone Di Liborio, che viaggio proprio non è se vogliamo paragonarlo al significato consueto di questa parola. Egli, infatti, non parte da un luogo e neppure arriva in un altro; non ci mostra posti noti (perché di sconosciuti, ormai, non ne sono restati), non ci racconta per l’ennesima volta vicende già viste, ma viaggia intorno e dentro a se stesso nel senso che il suo non è uno spostamento fuori di casa, un itinerario geografico vero e proprio, ma un percorso tutto interno al concetto di viaggiare.
Fra le sue fotografie ve ne sono due che in un certo senso vanno ritenute emblematiche di questo lavoro, poiché, riassumendo simbolicamente l’inizio e la conclusione del viaggio, possono essere poste ad aprire e chiudere la serie, e sono quella con la viaggiatrice seduta all’interno della squallida sala d’attesa di una stazioncina periferica e l’altra con la medesima donna che, tenendo per mano un bambino, si incammina lungo il binario vuoto. Sul piano del racconto, però, queste sono anche le due fotografie più «false» dell’intera serie, nel caso che rivelano inequivocabilmente di essere state costruite «a tavolino», di essere cioè il frutto di una messa in scena voluta (e del resto non intendono celarlo, ma semmai sottolineare la loro artificiosità proprio per alcuni particolari che suonano oggi anacronistici, come lo spago che lega la vecchia valigia di fibra). Ebbene, queste due immagini sono le sole che accennano ad un vero e proprio viaggio (e, singolarmente, come Calvino fa iniziare il suo da una stazione, così anche questo acquista il proprio senso preciso se fatto iniziare da lì).
All’interno di questo guscio simbolico costituito dalle foto di apertura e di chiusura che abbiamo individuato sta il nocciolo del racconto di Di Liborio, che non si propone come resoconto per immagini di un viaggio reale, ma, si è detto, come itinerario entro la mitologia costruita intorno al viaggiare.
Guardiamo per conferma le fotografie che meno sembrano restare all’interno di questo tema perché realizzate sui treni o nelle stazioni ferroviarie o metropolitane. In esse Di Liborio non descrive un proprio viaggio, ma quello degli altri poiché i protagonisti sono coloro che si spostano per motivi che egli cerca di immaginare attraverso alcuni particolari, come gli oggetti che si accompagnano ai viaggiatori, i loro abbigliamenti o i loro atteggiamenti. Ma il viaggio non è solo spostamento; è anche attesa, nel senso che implica una preparazione densa di desideri e di aspettative e comporta anche una grande dose di immaginazione. Ecco allora il viaggio visto come rito (la preparazione), oppure come anticipazione (i luoghi turistici fuori stagione), o come sostituzione (i giocattoli di latta e i globi geografici), oppure come stile di vita (barboni e assimilati). Ogni immagine consente, per associazione, di aprire un percorso nuovo, poiché muoversi all’interno del concetto di viaggio significa esplorarne tutte le infinite varianti e possibilità senza privilegiarne alcuna.
Il sobrio stile scelto per le sue fotografie, accuratamente costruite con precisa attenzione ad un equilibrio formale che non vuole fare disperdere l’attenzione sull’esteriorità, ma semmai condurla verso il nocciolo significante dell’immagine, ben si adatta al tema del racconto che non punta all’effetto impressionistico, momentaneo, ma piuttosto sull’attivazione dell’immaginazione personale di chi guarda.
Massimo Mussini