testo in catalogo di Xavier Canonne
“via fratelli Cervi, 66 MaxMara”
Nulla somiglia a un trasloco quanto una ristrutturazione a seconda di quando lo si scopre.
Quelle casse sono da portare via o da sballare? E le sedie, i tavoli, sono appena stati appoggiati lì o sono pronti per essere portati via e riciclati? Chi dovesse entrare in quei luoghi come un moderno archeologo alla scoperta di una città addormentata potrebbe interrogarsi sul loro destino come sul loro passato. Eppure, osservando quei manifesti sui muri, quei ritratti di giovani donne dallo sguardo seducente, quelle macchine da cucire di una volta, gli ometti negli armadi e i manichini nudi, capirebbe ben presto che quello spazio è stato il luogo di un’importante attività industriale, di una grande maison del prêt-à-porter italiano.
Comunque è ancora tutto lì, e potrebbe ricominciare, con le macchine come nuove che sonnecchiano, questa sala caldaie spenta che sembra aspettare il segnale della resurrezione. Non è degradata, niente graffiti, solo pochi detriti a terra. Non una rovina, ma un tempo sospeso, un intervallo fra ciò che non c’è più e ciò che sarà ben presto, la transizione fra una fabbrica tessile e un futuro centro dell’arte. Fuori, a dominare i parcheggi deserti, gli edifici testimoniano di essere altrettanto conservati, e la vegetazione sembra essersi contenuta da sé per non rovinare niente, per non opporre impedimenti a una prossima trasformazione.
Venendo meno al suo interesse per un passato lontano, Cesare Di Liborio si è inserito nel tempo sospeso di questo edificio moderno, attento come sempre ai mutamenti dell’Emilia Romagna, la regione dove vive e lavora. In realtà qui non si tratta più di archeologia o rovine, quelle che lo avevano portato dalle piramidi d’Egitto all’Etruria, o alle porte del tempo che sono Le colonne d’Ercole, vestigia di territori oggi ridistribuiti che lui ha fotografato, fedele ai suoi neri profondi, quei pozzi d’ombra ai quali l’occhio si deve abituare. Qui è quello che sarà, e che smentirà il giudizio di Lamartine o di Stendhal, che consideravano l’Italia la “terra dei morti”, restituendola al suo glorioso passato, alle sue rovine con le eleganti colonne spezzate.
Qui tutto li smentisce, la promessa di un rinnovamento prevale sulla nostalgia, nel ricordo di coloro che lavorarono in questo luogo, come testimoniano ancora quei segni rimasti a vegliarlo, e che l’onda presto travolgerà.
Xavier Canonne
Direttore del Museo della Fotografia, Charleroi
Nothing looks more like moving house than fitting out a house, depending on the moment at which you discover it.
Are these boxes waiting to be taken away or unpacked? What about those chairs and tables? Have they just been delivered or are they waiting to be removed for recycling? Someone happening upon these places like a modern archaeologist discovering a sleeping city might wonder as much about their destiny as their past. And yet, by looking at these posters on the walls, these portraits of young women with seductive eyes, these sewing machines from another age, these hangers on the rails and these naked mannequins, they would soon understand that the place was once a hive of important industrial activity, the headquarters of a large Italian ready-to-wear fashion house.
Everything seems ready to pick up where it left off, these sleeping “as new” machines, this dormant boiler room that seems to be awaiting a signal to spring back into life. There is no deterioration, no graffiti, barely any detritus on the ground. It is not a ruin but an interval, a hiatus between what is no more and what will soon be, the transition between a textile factory and a future arts centre. Outside, overlooking the deserted car parks, the buildings bear witness to a similar preservation and the vegetation seems to have held back so as not to disturb anything, not to prevent an imminent transformation.
Departing from his interest in a distant past, Cesare Di Liborio has crept into the interval of this modern building, while keeping an attentive eye on changes in the Emilia Romagna region, where he lives and works. It is no longer about the archaeology or ruins that led him from the pyramids of Egypt to Etruria, or to the doors of time that are The Pillars of Hercules, vestiges of territories now redistributed, which he photographed, faithful to his deep blacks, wells of shadow by which the eye must be tamed. It is enough to disprove the judgement of Lamartine or Stendhal, who saw Italy as the “land of the dead,” a reference to its glorious past, its ruins of elegant broken columns.
Enough to contradict this with the promise of a renewal prevailing over nostalgia, in the memory of the men and women who worked in this place, as evidenced still by these clues that have remained to watch over it and will soon be carried away by the wave.
Xavier Canonne
Director of the Museum of Photography, Charleroi