testo in catalogo di Marzio Dall’Acqua
Verde que te quiero verde.Verde viento. Verde ramas.
Verde che ti voglio verde.Verde vento. Verdi rami.
Federico Garcia Lorca, Romanza sonnambula,
in Poesie, Guanda, Parma, 1959, pp. 46-47
Il verde come desiderio, come aspirazione, come tensione, come totalità, come condizione esistenziale, ad annullare tutti gli altri colori, a rendere monocroma la pelle del mondo; il verde come lo voleva Lorca verde, appunto: rassicurante, rinfrescante, rasserenante, tiepido, percorso, come la carne, da un interno calore che lo rende umano. Colore dal valore medio, lontano dal celestiale azzurro e dall’infernale rosso, entrambi assoluti e inaccessibili, è così mediatore tra il caldo e il freddo, tra l’alto e il basso, appartiene alla dimensione dell’umano; è del nostro mondo, contraddistingue la nostra stagione. Quella possibile della primavera, dell’uscire dall’inverno, dalla solitudine dei rami spogli, dai mortali alberi scheletrici gridati a grigi cieli, del ritorno della vita. Verde era il colore delle acque primordiali, verde era, secondo l’alchimista Fulcanelli, la dea indiana della materia filosofale, come era la Venere di Fidia che usciva dal mare, di cui conservava sulla pelle la segreta cromia. Era ed è sempre il colore della vegetazione, l’estrema, complessa ed infinita varietà di toni che caratterizzano la natura.
Al verde tende il bianco e nero di Cesare Di Liborio, fotografo che si è avventurato in un viaggio sognante tra forme vegetali, tra perdute quinte arboree, in un teatro di fronde e rami, apparentemente in eterno primaverili, di cui gli scatti sono pagine di diario, sono annotazioni di rotta approssimata, intravista o intuita, dato che il suo occhio sembra muoversi in un territorio che è quello delle assonanze, dei rimandi, del riflettersi speculare di fondali e di quinte di un palcoscenico dell’illusione, che diventa, in questo continuo rinvio di un’immagine alla successiva, alla fine, un labirinto nel quale perdersi. Ed il verde riacquista così il suo antico simbolismo femminile, la sua natura materna, uterina, che chiude ed avviluppa, imprigiona, oasi e regressione, terapia e acquietamento, calma ed oblio. Eterno errare per ritornare sui propri passi, in un intrigo temporale, che appare come un eterno presente. Di Liborio elimina nelle sue fotografie l’uomo, la sua presenza, misura del tempo e delle cose, mentre la vegetazione è immediato simbolo di immortalità, di immutabilità, è al di fuori dello scorrere del tempo; chiusa nel ciclo magico delle stagioni, che però qui, in queste immagini, è anch’esso soppresso e sospeso. Non sembri strano questo alludere ad un colore da parte del bianco e nero, della complessa e molteplice scala dei grigi, che scorrono attraverso sfumature che in alcuni casi si intridono di luce, in altri si aggrumano, che sempre rimandano ad una natura inseguita, rappresentata eppure sfuggente, irraggiungibile, diversa da quella che si cercava affannosamente, tanto la vegetazione è protagonista assoluta, nella sua apparente incorrotta naturalità e spontaneità, eppure nel contempo artificiale ed artificiata. L’artificio domina l’occhio che non sa scoprire che forme umane, che creazioni spaziali che presuppongono una geometria, un equilibrio, una simmetria, un sentire tutto umano, mentre apparentemente le fronde, gli alberi, le erbe sembrano libere e genuine, in una contraddizione che diventa inquietudine, straniamento, sospensione ed attesa, come a cogliere una possibile incrinatura, una frattura che in fine rompa quella immobilità senza vento, quel gran teatro barocco, apparentemente essenziale, invece artificioso fino all’invenzione. Si attende un’onda che sommuova quell’aria ferma, al di fuori di ogni tempo e di ogni ora, per cui ogni fotografia-scena-quadro è, in questa atemporalità dell’eterno presente, come sospesa, quindi ambigua, ma insieme scopertamente irreale, in un certo senso falsa, denunciando comunque un’impotenza a uscire nella vita, a far circolare sangue, a pulsare con il ritmo del respiro dell’aria.
E così il grigio, il bianco e nero che non sono colori per definizione, tendono ad una cromia segreta che non può che essere quella del verde, aspirazione ed allusione, segno e rimando, in un susseguirsi di scene, in un capovolgersi di fondali, che ripetono come la stessa quinta che solo lentamente varia, allontanandosi per parafrasi da quella immagine iniziale di Veleia con due colonne tra due alberi che le inquadrano, con dietro un paesaggio che sembra un bozzetto romantico allusivo, più che mimetico di un bosco nel quale perdersi immagine per capire la quale ancora aiutano i versi di Garcia Lorca in “E’ tramontato il sole”: “Gli alberi / meditano come statue”. In questa immagine è descritta la sospensione sognata dei paesaggi di Di Liborio, nei quali le rovine, segno di un’antica presenza dell’uomo ormai assente, sono come un progetto interrotto, incompiuto, accantonato senza futuro, che però è stato ripreso, continuato, vivificato dalla natura, cristallizzato e fermo sogno dell’occhio vitreo che guarda e fotografa, che ha bisogno di terminare l’incompiuto, di ordine, simmetria, magari nel gioco binario di due piante che propongono un ritmo, una paratassi acquietante, pacificatrice. Anche l’irregolarità dei rami, dei cespugli si ricompone in evidente geometria, alla quale si adatta anche la luce come sorgente della vegetazione e non dimensione esterna che dà corpo e profondità, ma è anima segreta, scaturigine. Aiuta a capire ancora Lorca con i versi della casida dei rami: “Ma i rami sono allegri / i rami sono come noi. / Non pensano alla pioggia e si sono addormentati / come se fossero alberi, di colpo.”
Ed è questo incantato sognare, fuori dal tempo, che in Di Liborio diventa poesia. E la vegetazione rigogliosa dei siti archeologici come la romana Veleia, l’etrusca Marzabotto, Arles imperiale, Fosdinovo lunense, sembra una vittoria della natura sull’uomo, un’esplosione vitale che avvolge, adatta, trasforma le reliquie di un passato traendo da esse linfa per diventare però anch’essa muro, parete, colonna, contaminata da qualcosa d’umano da cui anch’essa non sa né può liberarsi. Uomo e natura chiusi entrambi in un labirinto dal quale non possono uscire. Ed è così che le rovine archeologiche si confondono con le rocce, con le pietre e le piante con mura sbrecciate, con colonne ancora erette come tronchi, in un sottile e segreto rimando di una vita ad un’altra, di uno stato d’essere ad un altro. E’ questa la sottile e lieve poesia delle opere di Di Liborio che in questa rarefazione trova, ancora una volta, nella simbologia del verde, assente e presente, come “arcobaleno smeraldo” dell’Apocalisse, come “sangue del Leone Verde” degli alchimisti, come Graal, o misterioso sangue del drago, nella filosofia cinese, per quell’impotenza che diventa contemplazione, asciutto occhio che si perde nella sua visione e quindi lieve malinconia.
Le ultime due immagini con l’oscura sepolcrale porta aperta di Gualtieri e con la murata porta di Fosdinovo sono forse l’anticipo di un viaggio che sta per incominciare o la nota conclusiva di un’impossibile fuga, di una impensabile possibilità di uscita.
Marzio Dall’Acqua
Parma, ultimo giorno di febbraio del bisestile 2000
“Verde que te quiero verde”
Green as desire, aspiration, tension, totality, existential condition, blotting out all other colours, lavishing a monochrome
sheen on the outer layer of the world. Green as Lorca meant his green: reassuring, refreshing, bright, warm, like flesh pervaded by an inner glow that
makes it human. As a colour, green has an intermediate value, far from celestial blue or infernal red, both absolute and inaccessible. As such, it can
mediate between hot and cold, high and low. Green pertains to the sphere of man, it belongs in our world, it marks our seasons – the possibilities of spring, of leaving winter behind with its barren branches and skeletal mortal trees screaming at grey skies, of looking forward to the return of life. Green was the colour of the primordial waters, and, for the alchemist Fulcanelli, green was also the Indian goddess of philosophic matter. So was the Venus rising from the sea foam sculpted by Phidias, whose skin retained the secret hue of the deep. And it is always the colour of vegetation, the extreme, complex and endless variety of hues characterising nature.
A greenish black and white marks the work of Cesare Di Liborio, a photographer who has embarked on a dream-like journey amongst vegetable forms, against a lost arboreal backdrop, on a stage of brambles and boughs, in an apparently eternal vernal season. His shots are pages of a diary, annotations for an approximate course, in which land is either fleetingly glimpsed or simply the fruit of intuition, as the eye seems to rove over a territory brimming with assonances, cross-references, mirror images of backdrops and props on the stage of illusion, which ultimately becomes, in this chase from one picture to the next, a labyrinth in which to lose oneself. Green thus reclaims its ancient feminine symbolism, its motherly nature,
becoming almost womb-like in its closing upon us, swaddling and cocooning us, holding us captive, oasis and regression, therapy and appeasement, quiet and oblivion. Eternally erring only to trace back our steps, in a temporal maze that looks like an endless present. In his photos, Di Liborio has done away with man and his presence, which is the measure of time and things, while vegetation is the immediate symbol of immortality, immutability, outside the scope of time, locked in the magic cycle of the seasons, which here, however, has been suppressed and suspended, too. In the overall black-and-whiteness, the complex and multiple range of greys flowing through shades at times imbued with light, at others almost curdled, congealed, always pointing to a chased nature, represented yet elusive, unreachable, different from the one so achingly sought after. This allusion to colour is perfectly cogent: vegetation is here the absolute protagonist in its apparent uncorrupted naturalness and spontaneity, while at the same time artificial and artful. Artifice dominates the eye that can discover only human forms, spatial creatures that imply a geometry, a balance, a symmetry, a totally human sentience. Leaves, trees, and grass, instead, appear to be free and genuine, in a contradiction that becomes restlessness,
estrangement, displacement, suspension and waiting, as if in the attempt to find a possible hairline crack, a breach that will finally break that lull of
wind, that great baroque theatre, apparently essential, yet so artificial as to be a sham. We are waiting for a wave to sweep away that stagnant air devoid of time and place, for which, in this timelessness of the everlasting present, every photo-scene-picture is suspended, and therefore ambiguous, while at the same time openly unreal, and so, in a sense, a fake, one that however denounces an impotence to attain life, to make the juices flow, to pulse with the rhythm of the air that we breathe.
And so grey, black and white, non-colours by definition, tend toward a secret palette that can only be tinged with green, aspiration and allusion, sign and reference, in a succession of scenes, a reversal of backdrops, repeated as a background that changes very slowly, moving away through paraphrases from the opening image of Veleia with two columns between the two trees framing them, with behind the landscape that
looks like an allusive, more than simply mimetic, Romantic sketch of a forest in which to get lost. In trying to understand this picture, we are once again
helped by the lines written by Garcia Lorca in “Se ha puesto el sol”: “Los árboles / meditan como estatuas”. The image perfectly captures the dream-like suspension of disbelief in Di Liborio’s landscapes, in which ruins, the sign of the ancient presence of a now-absent
mankind, are like project long interrupted, incomplete, indefinitely postponed, and then surprisingly resumed, continued, revived by nature, like a crystallised and motionless dream of the glass eye of the camera that looks and takes photographs, that needs to bring the incomplete to completion, that requires order, symmetry, to be found perhaps in the binary play of two plants proposing a rhythm, a becalming, pacifying parataxis. Even the irregularity of the branches and the bushes is recomposed in an evident geometry, to which the light is adapted and become the source of the vegetation and not a mere outer dimension that gives body and depth, the secret soul and fountainhead of all the greenery. The key is again in Garcia Lorca and his “Casida de los ramos”: “Pero los ramos son alegres / los ramos son como nosotros. / No piensan en la lluvia y se han dormido, / como si fueran árboles, de pronto.”
This is the enchanted, timeless dream that becomes poetry in Di Liborio’s work. And the lush vegetation of the archaeological sites like Roman Veleia, Etruscan Marzabotto, imperial Arles, Lunian Fosdinovo, is like the victory of nature over man, a vital explosion that enfolds, adapts, and transforms the relics of the past, drawing from them its lymph, only to become in its turn, a wall or a column contaminated by
something human it cannot shed. Man and nature captive of a maze from which they cannot escape. Archaeological ruins thus become one with the rocks and the stones, the plants with the crumbling walls, with columns still standing upright like tree trunks, in a web of subtle and secret cross-references of one life with another, one mood with another. This is the exquisite poetry in Di Liborio’s work, once again found in this rarefied atmosphere, this symbolism of greenness, absent or present, like the “emerald rainbow” of the Apocalypse, the “blood of the Green Lion” of the alchemists, the Holy Grail, or the mysterious dragon blood of Chinese philosophy. Through that impotence that becomes contemplation, the dry eye becomes lost in its own vision and turns into feather-light melancholy.
The last two images with the dark sepulchral open doorway in Gualtieri and the walled door in Fosdinovo are perhaps the preview of a journey that is about to begin or the ending note of an impossible escape, an impracticable way out.
Marzio Dall’Acqua
Parma, this last day of February of the leap year 2000